«Chi ha il
coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di
morire», scriveva Giacomo Leopardi. E mi sovviene, questo pensiero
dell'immenso poeta, mentre rivedo il riso (che si scioglie in sorriso,
sotto gli occhi vivacissimi e sbarazzini) di G., di quel ragazzino
quasi novantacinquenne della cui amicizia ho la fortuna di godere, e
che citavo in un post di qualche giorno fa. Ha sempre riso e sorriso,
G., anche davanti alla guerra, e alle abiezioni più terribili: come nel
corso di quei giorni tremendi in cui rischiò persino di morire, pur di
non precipitare nel buio di un campo di concentramento nazista. Ma questa è un'altra storia, che forse un giorno troverà la sua pagina.
Qui ed ora vorrei invece dire del ridere, del riso, del sorriso. Non del ridere meccanico, sguaiato, inautentico di questo nostro tempo difficile, in cui - molto peggio che nel secolo scorso - gli uomini sono sempre più perduti dentro i gorghi dell'immagine, dell'apparire, della finzione, dimentichi di sé stessi, del loro essere vivi, della loro umanità.
Non di questo riso inutile, e anzi dannoso, ma di quel riso che sulle labbra traduce un modo di essere, di stare al mondo. Di quel riso che, per tornare a Leopardi, appartiene spesso agli uomini dalle maniere semplici, quasi sempre quelli che valgono molto.
Giuseppe Giglio

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