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Vi racconto ...: Primo Levi, Auschwitz e il vizio della memoria

Redazione
Ci incontrammo nella penombra di un bar, in una stradina del centro storico di Torino. Lui già m'aspettava da un po', sorseggiando un caffè, al mio arrivo m'accolse con fare garbato, m'invitò a sedere, fece portare un bicchiere d'acqua e un caffè, e mi chiese da dove volevo iniziare. Così incontrai Primo Levi, in un tardo pomeriggio d'inverno, mentre fuori infuriava una tormenta di neve e la luce bianca dei lampioni, a tratti, illuminava i nostri volti e le sue parole. Partigiano, antifascista, scrittore, chimico, Primo Levi è stato sicuramente una delle personalità più profonde e fragili della nostra Italia; le sue parole, i suoi ricordi, la sua stessa vita sono stati semi di speranza e di riscatto per la sua generazione, e anche per la nostra. Dopo l'otto settembre del 1943 si rifugiò sulle montagne della Valle d'Aosta, unendosi ad un gruppo di partigiani, ma alcuni mesi dopo, il 13 dicembre, venne arrestato dalla milizia fascista e inviato nel campo di raccolta di tutti gli ebrei a Fossoli, in provincia di Modena, poi, nel febbraio del '44, in quanto ebreo, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove rimase fino alla liberazione, il 27 gennaio 1945. Fu uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo. Quei terribili e lunghissimi undici mesi di prigionia, trascorsi ad Auschwitz, saranno raccontati nel libro "Se questo è un uomo", un classico della letteratura mondiale, un libro che segna l'inizio delle testimonianze autobiografiche dei deportati nei campi nazisti. La sua voce si fece calma e profonda, mi parse impaziente di raccontare.

Può raccontare il viaggio per Auschwitz? «Ricordo tanto freddo, tanta paura, tante lacrime. Ci stiparono come bestie su di un carro merci, cinquanta o forse più. Un viaggio lunghissimo, interminabile, incomprensibile. Un vero tormento fisico e psicologico. Non sapere dove andavamo e perché c'andavamo. Accanto a me, per tutto il viaggio, c'è stata una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, sapevamo poco uno dell'altra. Ci dicemmo allora, nell'ora delle decisione, cose che non si dicono tra i vivi. Patimmo la fame, la sete, il freddo. Ma eravamo vicino, e non ci sentimmo soli. Arrivammo di notte, accolti da urla disumane e da latrati dei cani. Sulla banchina della stazione ci salutammo, ciascuno salutò nell'altro la vita. Non avevamo paura. Non la vidi mai più. In seguito seppi che morì nel campo, aveva solo venticinque anni. Il suo ricordo tormenta ancora le mie notti d'adulto».

Cos'è stato Auschwitz? «Credo che sia difficile da spiegare, e ancora più difficile da capire. Penso che nella storia dell'uomo nessuno avrà mai più il "privilegio" di vedere ciò che abbiamo visto noi. Auschwitz è la bocca dell'inferno, l'anticamera della morte, il regno dell'assurdo, pensato dall'uomo, costruito da mani d'uomo! Qualcosa di impensabile, di incomprensibile, di inaccettabile. Auschwitz è la distruzione dell'uomo. Distruggere l'uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, però i tedeschi ci sono riusciti benissimo. Siamo stati docili sotto i loro occhi: da parte nostra, non potevano temere più nulla: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice. Questa la nostra più grande tragedia. E la loro più grande vittoria. Averci annullati come uomini, averci resi muti, docili, sottomessi. Senza più forza di dire, di urlare, di protestare. Senza più voce. E poi c'era la "padrona di casa", la morte, che ad Auschwitz era triviale, burocratica e quotidiana. Era quasi scontata, nessuno ci faceva più caso, nessuno piangeva per un morto in più o in meno, c'eravamo abituati alla morte, tanto che nessuno pensava al "se morire", cosa scontata, ma piuttosto al come morire».

Hegel diceva che "tutto ciò che è reale è razionale". Ma c'è una logica, una spiegazione per Auschwitz? «Noi siamo solo testimoni, non storici, non filosofi. Ma semplicemente testimoni oculari, spesso lo dimentichiamo e ci sostituiamo agli storici, a chi, cioè, è chiamato, per competenza, conoscenza, studio, intuito, a dare delle risposte, a capire cosa è successo e perché è successo. Noi non possiamo e non sappiamo dire perché c'è stato Auschwitz. Non possiamo rispondere a ciò. Il nostro compito - ed è un grande compito - è solamente di dire e di raccontare tutto ciò che abbiamo visto e vissuto, con verità, lucidità, rigore scientifico, quasi maniacale, se mi concedi il termine, "con distacco", senza rancore, senza emozione, senza aggiungere e levare nulla. E più siamo rigorosi e fedeli nel racconto, più siamo "impersonali", più "ci nascondiamo dietro il racconto" e più facciamo il nostro dovere e più aiutiamo gli storici a capire e la storia a giudicare. Per questo, subito dopo il mio rientro a casa, nel 1947, ho voluto scrivere, quasi di getto, il libro "Se questo è un uomo", per raccontare la verità, in maniera lucida e imparziale, prima che veniva "deformata" dal tempo, dagli anni, dalla percezione, dalle sensazioni».

Ma come è stato possibile Auschwitz? E' possibile che allora nessuno sapeva, nessuno ha visto nulla? «Molti adesso dicono di non aver saputo, di non aver conosciuto, di non aver visto. Non può essere, non ci credo, sono tutte fandonie! Troppi, purtroppo, sono gli indizi che mi inducono a credere e a dire che non si poteva non sapere, o meglio, solo chi non voleva sapere, chi faceva finta di non sapere, chi si voltava dall'altra parte, "non sapeva": ma costoro sono maggiormente responsabili! Primo indizio: il veleno, lo Zyklon B, chi lo produceva, chi lo confezionava, chi lo commercializzava, chi lo trasportava!? Quanti operai lavoravano in illustre fabbriche chimiche tedesche di produzione del veleno!? E i capelli delle donne massacrate che finivano nelle fabbriche!? E l'oro dei denti estratti dai cadaveri che finivano nelle banche!? Possibile che nessuno si poneva la minima domanda a cosa serviva, che utilizzo aveva così tanto veleno!? E poi i forni crematori, le strutture di costruzioni di tali strumenti di morte. E poi le ferrovie, le linee ferrate, possibile che nessuno vedeva passare dalle stazioni, così tanti vagoni piombati e blindati, carichi di brandelli d'uomini che gridavano, che chiedevano aiuto, che chiedevano acqua, di giorno e di notte!? Possibile che nessuno sapesse o capisse!? Io non ci credo! Molti sapevano, molti, forse anche "dall'altra parte", e non hanno mosso un dito!».

Perché ha raccontato Auschwitz? «Tutti coloro chi hanno "vissuto" i lager nazisti, così come chiunque abbia sperimentato la prigionia, si possono dividere in due tipi: chi tace e chi racconta. Tace chi prova più profondamente quel disagio che io chiamo "vergogna", chi non si sente in pace con se stesso, o le cui ferite bruciano ancora. Gli altri parlano perché considerano l'esperienza del lager, di quel tipo di lager, una "ferita" profonda, assoluta, quasi identitaria, indelebile, cucita sulla pelle, come un marchio, come il numero che i nazisti ci stampavano sull'avambraccio, che ti segna la vita per sempre, perché si ha la netta convinzione, la piena consapevolezza di aver vissuto una situazione unica, straordinaria, storica. Auschwitz non è un evento, ma l'evento, mostruoso, epocale, irripetibile della storia umana».

Quali erano i reali rapporti umani all'interno del campo di prigionia? «Ecco, questo è il nocciolo della questione, il cuore del problema del lager. E di questo ne ho parlato ampiamente nel mio libro "ragionato" su Auschwitz, "I sommersi e i salvati". Noi tutti siamo abituati, per ogni vicenda, a cercare le differenze, ad individuare i carnefici e le vittime, a cogliere il nero e il bianco, a distinguere il bene dal male, a dividere il campo tra noi e loro, qui i giusti, là i reprobi. Ad Auschwitz non c'era niente di tutto questo! Non era semplice la rete dei rapporti umani all'interno del campo, non era riconducibile alla semplice, e quasi banale, constatazione degli oppressori e degli oppressi, dei persecutori e dei perseguitati, come una sorta di giudizio universale michelangiolesco. No, assolutamente, non era possibile tutto ciò! Il mondo del lager era terribile, ma anche indecifrabile, il nemico era intorno ma anche dentro, il "noi" perdeva i suoi confini; si sperava nella solidarietà dei compagni di ventura, ma gi alleati sperati, salvo casi speciali, non c'erano; c'erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. C'era un'infinita "zona grigia", come la definisco nel libro citato: era "questa" il nostro vero nemico che bisognava combattere ogni giorno, di cui bisognava difendersi. E non sono d'accordo neppure con chi ha parlato di "banalità del male". No! Il male è perfido, astuto, furbo, sottile, intelligente, sa dove e come colpire, conosce le debolezze e i punti deboli degli uomini, conosce il cuore dell'uomo. Il male non è mai banale!».

«Adesso voglio fermarmi. Ricordare è troppo doloroso, almeno per me. Ma non so se ci rivedremo ancora». Un'ultima domanda, lei crede in Dio? «C'è stato Auschwitz! Io ho conosciuto Auschwitz, quindi non può esserci nessun dio. Non trovo una possibile soluzione al dilemma. La cerco ma non la trovo».

Primo Levi era visibilmente stanco, lo sguardo triste, mentre parlava e ricordava l'orrore di Auschwitz. Per tutto il tempo della conversazione non sorrise mai, parlava lentamente, pesava quasi le parole, una ad una, scavava nella sua memoria fino a farla riaffiorare dalle tenebre dei lager nazisti, quasi come stesso facendo "un'operazione psicoanalitica". Su alcuni punti si soffermava maggiormente, sembrava che volesse scavare di più, che volesse far emergere altri ricordi, altri fantasmi, su altri si arrestava, accennava qualcosa, ma subito si fermava. Alla fine mi disse, «non so se ci rivedremo più. Mio caro amico, la memoria è una responsabilità immensa. La memoria è tormento, ma è anche liberazione. La memoria può far vivere, ma può anche far morire». Mi fece dono dei suoi libri, e mi salutò. Io, in cuor mio, speravo di rivederlo, di ascoltare altre storie della "bocca dell'inferno". Quasi ogni sera ritornai in quel piccolo caffè, sperando di rincontrarlo, poi alla fine, sconfortato, ritornai nella mia terra. La mattina del 12 aprile 1987, da un giornale appresi la notizia che mai avrei voluto leggere: "Ieri Primo Levi è stato trovato morto alla base della tromba delle scale di casa sua a Torino". Molti pensarono al suicidio, altri dissero ch'era stato un tragico fatale incidente. Durante il suo funerale il rabbino lesse il Salmo 91:
"Non temerai i terrori della notte
né la freccia che vola il giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno,
Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra;
ma nulla ti potrà colpire".

Angelo Battiato








Postato il Domenica, 27 gennaio 2019 ore 09:00:00 CET di Angelo Battiato
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