Tra tutte le
variabili che intervengono nella spiegazione dei risultati conseguiti
dagli studenti, il profilo degli insegnanti è quella che conta di più:
le conoscenze prodotte dalle indagini scientifiche svolte su
quest’argomento sono tutte concordi. Abbiamo in mano un grande potere.
I docenti italiani sono un esercito: poco meno di 700.000 persone. Un
esercito di persone che forma le menti di intere generazioni, e quindi
è in grado di plasmare un Paese.
E’ donna più dell’81% degli insegnanti: la seconda quota più alta dei
Paesi europei, dopo l’Ungheria. La percentuale è del 99,6% nella scuola
dell’infanzia, del 95,4% nella primaria, del 75,6% nella secondaria di
I grado, del 59,4% nella secondaria di II grado. All’Università le
percentuali sono assai più ridotte, e diminuiscono sensibilmente col
progredire nella carriera. Anche tra i dirigenti scolastici le donne
sono in minoranza: 39,7%. Si tratta, com’è evidente, di dati
inversamente proporzionali alle retribuzioni.
I laureati maschi in Scienze della Formazione sono costantemente calati
nell’ultimo decennio, fino a toccare nel 2009 quota 12%. E’ un calo
che, seppur in misura inferiore, si registra in tutte le facoltà
umanistiche.
Va detto anche che spesso per molti uomini la scuola è una sorta di
secondo lavoro: ci sono insegnanti-ingegneri, insegnanti-architetti,
insegnanti giornalisti-scrittori, ecc. Insegnare per le donne è invece
in genere il primo lavoro; nella scuola realizzano la loro identità
pubblica.
Quali sono le ragioni di questa lontananza, fisica o psicologica, dei
maschi dall’educazione?
C’è chi ha parlato della persistenza storica di modelli ottocenteschi,
quando nacque la figura della maestra per consentire alla donna che non
poteva o voleva essere solo madre di istruirsi e svolgere una
professione di cura, adatta a lei, lontana dagli interessi forti e
dalle posizioni elevate riservate agli uomini. C’è chi ha parlato di
persistenza di un virilismo che ritiene antitetico alla virilità tutto
ciò che ha a che fare con l’infanzia - regno della fantasia,
dell’indeterminatezza, della fragilità per antonomasia.
E’ possibile abbozzare anche un’altra spiegazione: nel nostro Paese il
ruolo dei docenti è sempre stato retribuito male, nonostante la
retorica connessa alla delicatezza del loro compito (e va sempre
peggio). Questo ha sempre scoraggiato l’accesso maschile, in un Paese
dove permane l’idea che l’uomo sia il “breadwinner”, che debba
guadagnare il pane per la famiglia, mentre la donna svolge, al limite,
un lavoro di supporto, cui è possibile rinunciare in caso di necessità
familiare.
In tempi più recenti va aggiunta e correlata la perdita di prestigio
sociale del ruolo docente (e della cultura nel suo complesso), che è
registrata da molti indicatori: non ultimo l’atteggiamento complessivo
delle classi dirigenti, talora al limite dello scherno.
Eppure la presenza di figure educative di entrambi i generi e dei due
codici in tutti i livelli di educazione scolastica e prescolastica
offrirebbe a bambini e bambine la possibilità di acquisire una maggiore
complessità di visione del mondo, per stili di vita, emotività,
fisicità, comunicazione. La dualità dell’esperienza umana è un dato
ineludibile con cui misurarsi: componenti biologiche, componenti
sociali, educative e culturali e componenti soggettive (anche inconsce)
vi si intrecciano. La perdurante assenza o marginalità del maschile
nell’educazione familiare e scolare non è privo di conseguenze.
Uno stereotipo che colpisce le insegnanti (e che spesso esse stesse
hanno introiettato) è quello che le donne abbiano un certo tipo di
“natura” che le porta a essere più dolci, comprensive, portate a
scusare gli alunni, perché questo vuol dire essere “femminili”. Nel
mammismo mieloso agisce lo stereotipo della “grande mamma
mediterranea”, che si trasforma in professionista ma è tenuta a
comportarsi da mamma anche dietro la cattedra.
Non è vero per tutte, ma in parte coglie nel segno: l’indebolimento
della relazione insegnamento-apprendimento ha fatto sì che spesso il
canone pedagogico della comprensione degradasse in forme di benevolenza
a buon mercato, che non aiutano né la crescita intellettuale né la
maturazione psicologica delle ragazze e dei ragazzi.
Ci si poteva aspettare, per altro verso, che una presenza così
massiccia di donne introducesse nelle discipline una nuova
epistemologia, non più a carattere androcentrico; che portasse ad un
approfondimento degli studi di genere; che inducesse nella cultura
diffusa un superamento degli stereotipi di genere.
Né l’una né l’altra strada sono ancora così praticate, da diventare
fenomeni di massa: eppure è noto che l’identità di genere si
costruisce, non è un dato “naturale”. Gli stereotipi di mascolinità e
di femminilità, facili categorizzazioni, semplificazioni antiche con
cui la società condivide e stabilisce comportamenti appropriati per
l’uomo e la donna, sono radicati nella cultura diffusa e vengono ancora
trasmessi quasi per inerzia dalle agenzie di socializzazione, scuola
compresa. E’ una lacuna grave.
Noi donne, che siamo la maggioranza degli insegnanti, che siamo
le protagoniste di questo processo che plasma l’identità sociale di un
popolo, forse per prime non siamo abbastanza consapevoli e abbastanza
orgogliose del nostro ruolo. Non dobbiamo permettere che la stima
sociale nei confronti della donna nella scuola scenda a livelli
che non rendano sufficiente giustizia al nostro impegno e
all’importanza del nostro lavoro. Dobbiamo reagire non con le
recriminazioni, ma introducendo sguardi nuovi, approcci visibili a un
modo diverso di declinare i saperi e le relazioni.
Sarebbe necessario denaturalizzare lo storico, dubitare
dell’ovvio, mettere in discussione sia le nostre azioni che il
modo col quale ci relazioniamo con la tradizione dei nostri
saperi e con le gerarchie di genere che essi comportano: per essere
produttrici e non prodotti di cultura. Una lettura gender sensitive,
attenta agli aspetti di genere, è applicabile a qualunque branca delle
scienze sociali, storiche, giuridiche, psicologiche e letterarie, ed è
attualmente praticata anche in altri settori: perfino la medicina.
L’istruzione costituisce la prima palestra di democrazia. Si tratta di
un’autentica matrice dei comportamenti dell’essere umano, del tessuto
relazionale che forma la società. E’ nella scuola che s’incontrano i
maschi e le femmine, che si incrocia per la prima volta il corpo del
diverso. Qui giochiamo una grande scommessa: l’educazione alla
differenza.
A partire da queste riflessioni riteniamo utile suggerire interventi
non occasionali ma sistematici a scuola, lungo dimensioni finalizzate a
promuovere una cultura dell’uguaglianza nella differenza e a prevenire
la violenza di genere:
- costruire epistemologie anche al femminile, attraverso la
declinazione delle discipline in un’ottica di genere;
- conoscere le culture riferite al genere e sviluppare una
consapevolezza su di esse, sulle criticità e sulle linee di sviluppo
endogene delle culture stesse;
- intervenire per mettere in discussione e destrutturare stereotipi
sessisti, presenti soprattutto nei mass media ma non assenti nemmeno
nei testi scolastici;
- offrire la possibilità di confrontarsi con ogni identità.
Disponiamo di una ricca bibliografia in materia; dei riferimenti
normativi appropriati in campo europeo; di percorsi didattici
articolati; dei riferimenti alle tante esperienze e ai progetti di
gruppi di insegnanti che in tutta Italia si dedicano da tempo con
entusiasmo a questo cambiamento di prospettiva.
E’ tempo di condividere tutto questo, di mettere in rete le competenze
di ciascuna al servizio di tutte.
Graziella Priulla
Facoltà di Scienze Politiche di
Catania