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Cosa ci saremmo aspettati dal ministro della istruzione (e non solo dalla Gelmini, ma da tutti coloro che, da quando si è capito che la nostra scuola aveva perso il filo, si sono succeduti nel dicastero che fu di Gentile, fascista d’accordo, ma uomo di cultura) non è difficile dire.
Posto come teorema e punto fondamentale che tutti i decreti messi in atto da quest’anno scolastico sono mortaretti per coprire la guerra del risparmio, ci siamo da sempre aspettati che il miglioramento della scuola partisse dalla preparazione universitaria dei docenti. Una laurea è insufficiente per una didattica scientifica sul campo. Il migliore architetto, ma anche letterato o latinista, se non conosce neanche i rudimenti di psicologia dell’età evoluta, di psicologia generale, di didattica, di scienza della formazione e di diritto scolastico sarà sempre un docente a metà e in classe rischierà sempre di fallire. Da qui sarebbe stato opportuno un biennio universitario, a numero chiuso e rigoroso, con queste discipline per tutti coloro che volessero prendere la via della docenza, e concluso da un tirocinio. Nessuno può improvvisarsi professore senza i rudimenti dell’arte che fu di Socrate. Il secondo passaggio sarebbe dovuto essere la rivoluzione copernicana dei curricula. Galli della Loggia sul Corriere lo ha espresso, possiamo solo supportalo perché la storia, come idea di Nazione, e la letteratura sono gli elementi portati che agganciandosi al passato formano il futuro e al futuro guarda lo studio della matematica connessa alla informatica. Professori sapienti per insegnare discipline che creano sapienza. Allo stesso modo sarebbe stato necessario costruire l’idea di cittadinanza europea e, come dice Morin, terrestre allargando l’area geografica e linguistica nella concezione che l’abbattimento di un albero in Amazzonia equivale all’abbattimento di un albero nel mio giardino. Andiamo per sommi capi ma fondamentale doveva essere un biennio obbligatorio comune prima di un triennio di specializzazione per la secondaria di secondo grado in preparazione o per l’Università o per il mondo del lavoro. Un esame conclusivo con un voto unico è quanto di più antididattico si possa pensare ma su cui, nonostante i tentativi di modifica, nulla si è fatto. La certificazione si rilascia non nel “complesso” ma sulle competenze specifiche e per fare questo ci possono essere o enti terzi o commissioni tutte esterne su test oggettivi a livello nazionale.
I dettagli li lasciamo agli esperti ma senza una politica di uguaglianza sociale, nel senso di distribuzione della ricchezza media per sfruttare la cultura e la conoscenza e le opportunità messe sul mercato da questi tempi di concorrenza e emulazione becera (bene ha detto il Papa), c’è sempre il rischio che si creino sacche di ignoranza o comunque di sotto preparazione. Come leggere altrimenti i dati sull’analfabetismo diffusi in questi giorni. Non ci interessa trovare i responsabili ma di qualcuno è colpa, come colpa dei politici è quella di avere fatto delle proprie segreterie gli uffici di collocamento, mortificando il merito. Qualcuno dica come si fa a motivare un giovane a studiare quando sa che poi interviene (o non interviene) il santino in paradiso? Ma non passerebbe solo da qui, crediamo, una riforma sana della scuola se non vengono fatti investimenti anche sul versante della preparazione dei dirigenti. Chi vive di scuola conosce una verità sconcertante: il docente è stato sempre lasciato solo con gli incartamenti e le incombenze, indispensabili, di tipo burocratico e normativo. E investimenti anche per tenere le scuole aperte l’intera giornata per fare musica, teatro, danza, luogo di lettura e di dibattito, come furono gli oratori o le classi di Barbiana. E ancora investimenti per promuovere schiere adeguate di ispettori col compito di verifica ma anche di aggiornamento, di stimolo, di consiglio, di indirizzo ai docenti e ai presidi. Si parla spesso della Finlandia, ma quella Nazione  non ha solamente la migliore scuola del mondo, ha anche una sanità migliore della nostra, ha trasporti migliori, ha città più vivibili, ha meno corruzione e soprattutto meno “cose nostre” e meno disoccupati. I conti quando si parla di scuola si fanno pure con questi dati oggettivi che poi si riflettono sul numero di quotidiani venduti e di libri letti. Un ultimo dato. La scuola vive di parole, come la politica, ma se le parole non si traducono in fatti con l’esempio (e ci viene sempre in mente Socrate) ogni sforzo e ogni riforma è parola vana. Cerchiamo l’esempio (e ci viene in mente Diogene) e se coloro che in Parlamento parlano sono “uomini d’onore” ci diano l’esempio del buon governo (e ci viene in mente Platone) anche se molta responsabilità è di chi ama delegare più che intrevenire.
PASQUALE ALMIRANTE








Postato il Sabato, 13 settembre 2008 ore 09:52:56 CEST di Pasquale Almirante
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