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UN LIBRO PER RICORDARE
Lessico famigliare  (Torino, Einaudi, 1963 , romanzo autobiografico)  di Natalia Ginzburg


La scrittrice racconta la vita quotidiana della sua famiglia sullo sfondo degli avvenimenti drammatici del Novecento : il primo dopoguerra, l'avvento e l'ascesa del fascismo, la seconda guerra mondiale, fino agli anni della ricostruzione.

 Natalia, l’ultima dei cinque figli Levi, è la voce narrante. Con assoluto rispetto della verità, e, per certi versi, mantenendo l’incanto della fanciullezza, l’autrice non solo ripercorre con la memoria le vicende dei suoi cari, ma ne fissa per sempre anche il linguaggio (che, come sappiamo, è unico per ogni nucleo famigliare), i motti, le abitudini radicate.
Ne è protagonista il padre Giuseppe: la casa riecheggia sia delle sue urla che delle sue risate. Egli è tenero e dispotico al tempo stesso: non tollera, a tavola, che s’intinga il pane nel sugo (gesti chiamati potacci o sbrodeghezzi); e mal sopporta i modi goffi e impacciati, da lui inesorabilmente definiti negrigure.
«Il divertimento che il diavolo dà ai suoi figli», secondo la madre Lidia, sono le gite in montagna che il marito "infligge" a tutta la famiglia. Queste sono precedute dai preparativi estenuanti, e innumerevoli sono i divieti, talvolta davvero risibili, imposti ai figli.
Tentare anche solo un breve riassunto del Lessico non è semplice: è una storia che ruota su se stessa, proponendo, a brevi intervalli, lo stesso frasario, che a mano a mano conquista il lettore, col risultato di diventargli, alla fine, per l’appunto, famigliare.
Natalia annota, apparentemente con un certo distacco, le liti tra fratelli, i primi amori della sorella Paola, le leziosaggini della madre Lidia.
Una casa molto frequentata, quella dei Levi. Ci vive Natalina, la fedele cameriera; spesso le fa compagnia la sarta, chiamata dalla padrona di casa per rivoltare un cappotto o confezionare abiti a domicilio.
Come tanti altri scrittori, anche la Ginzburg è debitrice di Proust; nel 1937 tradusse, prima fra tutti in Italia, Du côté de chez Swann. Del resto, il Lessico lo testimonia, Natalia conobbe fin da ragazzina il capolavoro di Proust, essendo, questo, oggetto di vivaci discussioni in seno alla famiglia. Effettivamente vi sono, fra la Recherche e il libro della Ginzgurg, dei punti di contatto. Alla
narrazione delle vicende famigliari fa da sfondo la Storia: l’ascesa di Mussolini, le leggi razziali, la lotta antifascista. Nel suo libro, la Ginzburg affronta con un certo pudore la prigionia del padre, la fuga oltre confine dei fratelli, la reclusione e l’uccisione del primo marito, riuscendo a conservare la semplicità e la freschezza che contraddistinguono i suoi scritti.
Come definire Lessico famigliare? Un libro di memorie, un’autobiografia?
Da sempre si considera l’autobiografia l’ambito preferito dalla letteratura femminile. Nel caso di Natalia, i ricordi dell’infanzia si concentrano esclusivamente nella sfera famigliare, poiché non frequentò le scuole elementari e per i primi anni ebbe come maestra la madre. Il Lessico, però, non può considerarsi una semplice autobiografia, come scrive la stessa Ginzburg nell’Avvertenza.
È soprattutto un insieme di ricordi, che il trascorrere del tempo può avere reso imprecisi, labili. Con la sua opera l’autrice ha inteso lanciare un chiaro messaggio, di fronte al disperdersi della propria famiglia d’origine a causa della guerra, delle morti, della lontananza.
«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: "Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido solfidrico", per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, […] testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: "Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!"»
Ecco il messaggio, inequivocabile, contenuto nel Lessico famigliare: i nostri genitori, i nostri fratelli, gli amici di allora sono i soli testimoni di quello che siamo stati, e che ora non siamo più.
E forse è proprio questo il segreto del libro, vincitore del Premio Strega, che ottenne da subito un grande successo editoriale
Ma chi è Natalia Ginzburg?

Nasce il 14 luglio del 1916 a Palermo, da Giuseppe Levi e Lidia Tanzi. In quegli anni, il padre di origine triestina, insegnava anatomia comparata all'Università di Palermo; più tardi, divenne un biologo e un istologo di grande fama. La madre, lombarda, era figlia di Carlo Tanzi, avvocato socialista, amico di Turati "aveva una natura lieta, e dovunque trovava persone da amare e dalle quali essere amata".  Molte personalità (Foa, Pavese,i Rosselli)  frequentano la casa di Natalia  e fanno parte insieme con il professore Levi, del gruppo antifascista "Giustizia e libertà" e, perciò cadono vittime della persecuzione fascista. Con l'introduzione delle leggi razziali, tutti gli uomini della famiglia Levi sono arrestati e costretti ad allontanarsi dall' Italia: il padre a Liegi, il fratello Mario a Parigi e Alberto al confino in Abruzzo. Intanto Natalia si è sposata , nel 1938, con Leone che sconta anche lui, la sua fede antifascista in un carcere di Civitavecchia.
Nel 1943, il 26 luglio Leone Ginzburg lascia il confino, rientra a Torino e di lí passa a Roma, dove in settembre comincia la lotta clandestina. Il primo novembre, coi tre figli, Natalia raggiunge il marito a Roma, in un alloggio di fortuna in via XXI Aprile. Il 20 novembre Leone è arrestato dalla polizia italiana nella tipografia clandestina di via Basento. E' trasferito nel braccio tedesco di Regina Coeli.
Il 5 febbraio del '44 muore Leone Ginzburg nelle carceri di Regina Coeli. Dal giorno dell'arresto fino a quello della morte, Natalia non vide mai il marito. La scrittrice stringerà poi amicizia con Pavese e Balbo, dei quali tratteggia efficaci ritratti.

M.Allo
  Ma eccovi il testo integrale di una serie di conversazioni radiofoniche in cui la Ginzburg racconta la propria vita e la propria opera letteraria.

 

 

 

 

 

Nel maggio 1990 la scrittrice Natalia Ginzburg accetta di raccontare la propria vita alla radio in un ciclo di conversazioni condotte da Marino Sinibaldi per la trasmissione "Antologia", in onda su Radio Tre.
Nel programma intervengono, facendo da affettuoso controcanto alla protagonista, Cesare Garboli, Giulio Einaudi, Masolino D'Amico, Enzo Siciliano, Guido Fink, Dinda Gallo e Vittorio Foa.
Dalla fedele trascrizione di queste conversazioni nasce "E' difficile parlare di sé", un libro a più voci, intriso di confidenze "rubate", memorie e nostalgie, curato dall'amico Cesare Garboli e dalla nipote Lisa Ginzburg che così descrive la nonna Natalia nella prefazione:

"Combattevano in lei un'anima leggera e sognatrice e una invece saldamente e costantemente ancorata alla realtà. In questo contrasto credo si riassuma una delle radici più profonde della sua vocazione di scrittrice. Mi sono chiesta molte volte se la seconda, l'anima più realistica, non si sia sviluppata più di quanto le sarebbe stato naturale, se non si sia trattato di una obbligata conseguenza delle tragedie che l'hanno colpita nel corso della vita. La leggerezza brillava nei suoi occhi nonostante i modi spesso rigidi, e sempre sobri e austeri. Era una leggerezza che i fatti avevano soffocato, e di cui tuttavia lei conservava una memoria lieta, piena di gratitudine. Lo penso ricordando il sorriso aperto, ingenuo in cui a volte si apriva, offrendo a chi ne era spettatore lo stesso calore di un abbraccio inaspettato; lo penso ricordando le risate a cui sapeva abbandonarsi, liberamente. Ci si sentiva immersi standole vicino, in un universo, dove le regole del mondo riuscivano a legarsi a una libertà ariosa, a un respiro che riusciva sempre ad essere più lungo di quello degli avvenimenti…"

Nonostante la mediazione giornalistica e l'intreccio di tanti interlocutori, non c'è libro che assomigli di più alla Ginzburg.
Vi si trovano la sua naturale ritrosia a scoprirsi, l'inclinazione ad esprimersi con semplicità, la tendenza a preferire le immagini ai lunghi discorsi, il gusto di titubare e contraddirsi con il risultato di essere più vera ed espressiva.
Nel testo ripercorrono, con varia intensità, momenti aspri e momenti teneri della sua vita: la figura del marito Leone, rievocata nella poesia "Memoria"; la permanenza in esilio in quell'angolo desolato dell'Abruzzo; la presenza breve e determinante di Cesare Pavese; il lavoro alla casa editrice Einaudi, e proprio in queste pagine la scrittrice "si becca e ribecca", in toni caldi e fraterni, con il "patron" Giulio Einaudi a proposito delle scelte editoriali avventate e degli errori commessi.
Spiccano, tra l'altro, le figure di Felice Balbo e Carlo Levi, Adriano Olivetti ed Elsa Morante.
Il metodo per gustare interamente questa "scena di conversazione", come la definisce Cesare Garboli, è di accostarsi ad essa dopo aver assaporato qualche pagina della protagonista, e non a caso proprio in questo testo ne vengono riportate parecchie.
Tra le pagine più struggenti del libro c'è il ritratto dell'amico amato e rimpianto Cesare Pavese, ricordato attraverso brani del volume "Le piccole virtù" del 1962.
Ma qui, in più, è come se la Ginzburg aggiungesse didascalie e note in margine ai propri testi e acconsentisse a svelarne i retroscena. Tra gli esempi: la sua oscillazione, nel raccontare, tra l'uso della prima o della terza persona. O quella teoria, autocritica, che le faceva collegare i propri stati d'animo alla riuscita o meno dei suoi libri: "Quando si è felici si scrive inventando di più" nel caso opposto "la fantasia è meno fervida".
Ma Natalia Ginzburg è mai stata felice? A questa domanda risponde in chiusura del libro Vittorio Foa, uno degli interlocutori principali di queste conversazioni radiofoniche: "Natalia è triste, così come lo era a quattordici anni quando l'ho conosciuta". E ci dice ancora: è triste e malinconica anche quando è operosa, positiva e creativa. Malinconica e attraente. Così come lo era, per lei, l'amico Pavese e, ancora, così come lo è la sua Torino, chiamata in causa spesso tra le righe del testo come culla di ogni nostalgia.
A cura di Cesare Garboli e Lisa Ginzburg

m.allo









Postato il Giovedì, 24 gennaio 2008 ore 16:28:00 CET di Maria Allo
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