E venne il giorno
della mietitura, e ‘u zu Carmine con il suo caro amico, il giovane
asino Ciccineddu, si recarono in contrada “Vaccaro” per mietere il
grano che, maturo al punto giusto, “aspettava”, quasi con impaziente,…
il lieto fine!
La contrada Vaccaro si trova poco distante il cimitero del paesino dei
Nebrodi, e quella mattina ‘u zu Carmine, prima preparò Ciccineddu,
mettendogli il basto ed il serraglio, poi predispose il necessario per
mangiare, una bottiglia di vino e un contenitore per l’acqua (‘u
bùmmulu) e, infine, si avviò verso la campagna.
Arrivato vicino al cimitero, dove vi era la biviratura con una fontana
d’acqua che serviva per far bere gli animali, ‘u zu Carmine riempì
prima ‘u bùmmulu, poi, con la mano, pulì l’acqua della gebbia e fece
bere Ciccineddu.
Dopo essersi dissetati, tutti e due si incamminarono verso la contrada
Vaccaro, costeggiando la cinta muraria del cimitero.
Arrivati sul posto si inoltrarono dentro il podere, ‘u zu Carmine
liberò Ciccineddu dalle sacche (‘i vèttuli), gli tolse il basto ed il
serraglio, e così il giovane asino si avviò verso la zona del podere
che era stata preparata per lui, dove, ‘u zu Carmine, aveva seminato ‘a
vizza, un’erba gustosa e nutriente per il suo animale.
‘U zu Carmine, dopo aver depositato i vèttuli dentro la casotta, prese
la falce e dei leganti, fatti d’erba dura (‘a liami), che servivano per
legare i covoni (i ‘regni), e si mise a falciare (mètiri) il grano,
facendo delle piccole fascine e depositandole sul terreno libero,
mentre, non lontano da lui, Ciccineddu brucava l’erba (‘a vizza) con
soddisfazione.
Il falciare, sotto il sol leone, era sicuramente molto pesante e
faticoso, ma ‘u zu Carmine, con il suo cappello di paglia a faglia
larga, si mise di buona lena a mètiri, e in poco tempo “liberò” dal
grano gran parte del suo podere. Quel terreno, arato, spietrato,
lavorato e seminato, insieme a Ciccineddu, produceva, finalmente, un
buon frumento per l’annata. Lo stesso lavoro che ‘u zu Carmine aveva
fatto ppa vizza, il prelibato mangiare del fido Ciccineddu; infatti,
non pensava solo al raccolto per la famiglia, ma anche al sostentamento
del suo giovane amico che, brucando l’erba, lo scrutava con affetto e
lo sorvegliava amorevolmente.
Sotto il sole che picchiava, ‘u zu Carmine, a metà mattinata, staccò di
mètiri, entrò nella casotta, prese il pane e ne staccò un paio di fette
che mangiò con il formaggio e le olive nere (‘u cumpanaticu), poi bevve
un sorso di vino e prese una fetta di pane, una manciata (‘na junta) di
fave e le portò al suo “compare” Ciccineddu, che ne fu contento, tanto
che lo ringraziò, emettendo… un leggero raglio!
Dopo questa effusione di affetto, ‘u zu Carmine prese il secchio, si
avviò verso il pozzo e lo riempì d’acqua che portò a Ciccineddu, poi
ritornò al suo lavoro di mietitura del frumento, fin verso le ore
tredici, per fare passare la gran calura, dopo approntò un pasto
frugale che consumò all’ombra della casotta sotto un albero di fico, ma
prima si preoccupò di Ciccineddu, porgendogli una bella porzione di
vizza!
Nel pomeriggio, ‘u zu Carmine continuò il lavoro, poi raccolse il
frumento in covoni che lasciò nel terreno, perché le spighe dovevano
riposare.
Il lavoro di falciatura durò per l’intera settimana, e ‘u zu Carmine,
col suo giovane asino Ciccineddu, ogni giorno si recava per la
mietitura, ed alla fine si sentì un po’ stanco, ma soddisfatto del
lavoro compiuto!
Guardò Ciccineddu e valutò che ne era valsa la pena arare quel campo,
spietrarlo e seminarlo, perché la raccolta era stata abbondante.
La sera, quando si ritiravano a casa, si sentivano entrambi
soddisfatti. ‘U zu Carmine, prima della cena, offriva sempre a
Ciccineddu la ormai rituale manciata di fave, una bella spazzolata, una
bevuta di acqua fresca (non faceva mancare nulla al suo giovane amico),
per poi ritirarsi, con la famiglia, la moglie Nunziata, le figlie
Maria, Concetta ed il figlio Gaetano, per consumare la cena e parlare
un poco, per concedersi, alla fine della lunga giornata di lavoro, il
meritato riposo.
Anche Ciccineddu, in sintonia con il suo padrone, si concedeva il
giusto riposo, finendo di gustare le fave e l’erba che ‘u zu
Carmine gli aveva lasciato.
Dopo un po’ di giorni si recarono insieme in contrada Vaccaro per
vedere se i covoni di grano erano pronti per la trebbiatura. E il
lavoro continuò…
Giuseppe Scaravilli
giuseppescaravilli@tiscali.it