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Università: ”Tagliare le cattedre inutili dei baroni''

Redazione

 Perché l'università non assicura loro nessun futuro?
"Perché non ha saputo fare i conti con la trasformazione da università di élite a università di massa. La crisi non riguarda solo l'Italia, ma da noi ha raggiunto punte esasperate perché abbiamo un sistema molto ingessato, molto autoreferenziale, molto resistente al cambiamento. E i più resistenti al cambiamento sono i professori, che non hanno voluto mettere ordine nel sistema perché in questo modo hanno potuto gestire meglio le forme più diverse di micropotere. Fino ad arrivare al punto che l'immagine pubblica dell'università si è deteriorata agli occhi stessi della società che la supporta. Troppo spesso sono stati denunciati scandali di fronte ai quali i professori non hanno fatto altro che commentare 'è vero, ma ci sono anche quelli bravi': un sistema che non è capace di introdurre dei correttivi laddove vede una corruzione così forte evidentemente è sbagliato"

Vuol dire che hanno prevalso i peggiori?
"I corrotti sono la minoranza. Però il sistema consente la corruzione. E quindi va modificato. Il precedente governo Berlusconi aveva varato una legge che riguardava il reclutamento dei nuovi docenti, la legge Moratti, piena di difetti, ma con un pregio: abolire i concorsi gestiti dalle facoltà. Un metodo, inaugurato dal ministro Luigi Berlinguer, che ha portato non solo al familismo, ma anche alla promozione sempre e comunque del candidato locale nonostante avesse meno meriti di quello non locale. Dopodiché la legge Moratti non è stata mai applicata, e il ministro Fabio Mussi l'ha abrogata. Risultato: nei prossimi mesi avremo altri 3.600 professori di prima e seconda fascia fatti secondo una logica che tutti riconoscono come sbagliata".

Il localismo è una matrice della mediocrità?
"Non c'è il minimo dubbio, perché il mercato del lavoro intellettuale è ormai un mercato mondiale. Una grande università straniera quando deve prendere un nuovo professore cerca di assicurarsi il migliore possibile, e lo cerca ovunque, in tutto il mondo. Alcune università americane hanno anche la regola che questo migliore non può mai venire dall'interno, non può cioè essere un associato che diventa ordinario. È mai possibile che negli atenei italiani vinca sempre il candidato locale?".

È il micropotere di cui lei parlava, la necessità di piazzare gli allievi e i famigli a prescindere dal merito. E anche spesso dall'utilità del corso che saranno chiamati a tenere?
"Esattamente. Il meccanismo moltiplicatorio delle cattedre è stato uno dei banchi di prova peggiori che le università hanno dato di sé. I meccanismi di questa moltiplicazione sono stati due: innanzitutto cercare di moltiplicare i corsi per sistemare allievi. Un associato che dovrebbe aspettare dieci anni una cattedra lo mettono a posto inventando, chessò, un 'Storia dell'arte fiamminga nei suoi rapporti con quella provenzale', o 'Storia delle streghe nelle valli trentine'. L'altro meccanismo escogitato è stato quello di delocalizzare le università: così oggi abbiamo 80 atenei ma le sedi distaccate sono un numero che nessuno veramente conosce, e che è stato quantificato in 380".

Mentre nel resto del mondo la tendenza è ad accentrare il più possibile.
"Per evitare lo spreco di risorse e creare massa critica. Invece in Italia si è voluto dare retta ai professori che volevano piazzare gente, e ai comuni che insistono per avere a tutti i costi un ateneo. Ma quante volte si arriva in un piccolo centro e si legge: 'Comune tal dei tali, sede di università'. Perché hanno usato locali inutilizzati per mettere in piedi delle lezioni sgangherate. Non c'è un laboratorio, non c'è un libro. Questo avvilisce l'università".

Il localismo ha una sua giustificazione nella vocazione di garantire il diritto allo studio: se al giovanotto di Predappio gli fai la sede sotto casa, spende meno, può lavorare e studiare... Vogliamo allora dire che si deve tornare all'università dei pochi?
"No. Ci sono altre maniere per garantire il diritto allo studio. E insieme garantire un futuro ai giovani. Invece che fare 380 nuove sedi finte, ad esempio, se ne potevano fare cinque vere localizzate nei luoghi dove ce n'era bisogno. Si trattava di canalizzare le energie locali per costruire residenze universitarie, per dare borse di studio. O per dare prestiti d'onore: nel Regno Unito sono un milione; in Italia, Banca Intesa ha lanciato qualche anno fa un progetto ma è difficilissimo fare gli accordi con le università e finora non hanno dato più di 6 mila prestiti".

Sta descrivendo un'università-pantano, ostaggio dei micropoteri. Si fa fatica anche a vedere i baroni di un tempo, scomparsi nel fango dei professorucoli.
"Perché la crisi forte è quella del reclutamento, fatto su basi così localistiche e svincolate dalla qualità dei candidati per paura di quello che dovrebbe essere l'unico criterio che ci permetterebbe di uscire da tutto questo: il merito. Ma ormai l'università italiana è arrivata a un punto tale di crisi che per poter inaugurare una stagione nuova non può che uscire da se stessa".

Vuol dire che ha esaurito i suoi anticorpi e non è più in grado di correggersi? Cosa vuol dire 'uscire da se stessa'?
"Dobbiamo uscire dal nostro sistema autoreferenziale e ricordarci di essere sul pianeta Terra. Io sono stato in commissioni per nominare professori in università tedesche, francesi e americane. Non vedo perché colleghi tedeschi, francesi, e americani non possano essere nelle nostre commissioni. L'università è una comunità di studiosi, la quale, per sua natura, e oggi più che mai, è internazionale. Allora, qualunque regola che valga solo in Italia e non fuori dall'Italia è evidentissimamente sbagliata".

Ma gli atenei preferiscono farsi i concorsi in casa. Lei pensa che potrebbero accettare di essere così fortemente influenzati dalle comunità scientifiche internazionali?
"L'università è governata da norme emanate dal governo centrale, e se questi vuole salvare il sistema universitario deve fare delle riforme che riconoscano il merito. E per questo deve valutare i singoli professori, sia per il reclutamento dei nuovi sia per le attribuzioni ai vecchi; deve valutare i dipartimenti; deve valutare gli atenei. Esistono già delle leggi, mai applicate, che si possono riprendere e migliorare: la legge Moratti, come ho già detto, e la legge d'istituzione dell'Agenzia di valutazione, che è lettera morta".

Invece il ministro Mariastella Gelmini con la legge 133 ha fatto arrabbiare tutti. MA  STIAMO ATTENTI QUANDO, NELLA FOGA DI OPPORCI ALLA GELMINI, FINIAMO PER DIFENDERE PERSINO GLI INDIFENDIBILI BARONI COME QUELLI A NOI BEN NOTI DELL’ATENEO CATANESE…
 Eccovi un articolo uscito sabato sul quotidiano “La Sicilia  ”Tagliare  le cattedre inutili dei baroni

"Sono certo che ci sono molti sprechi, ma non ho mai visto la virtù che si genera da una scure che si abbatte alla cieca. Sono tagli che accentueranno la crisi".A differenza del preside della facoltà di Lettere di Catania, Enrico Iachello, che ci chiama in causa nel suo articolo di ieri, noi sappiamo fare delle distinzioni: non approviamo i tagli alla ricerca, ma non possiamo restare ciechi davanti agli sprechi né alla proliferazione di cattedre e corsi assolutamente inutili, slegati dalla realtà e privi di sbocchi. L’università di certi baroni meridionali, premiati più per la capacità di tessere trame di potere che per solidità culturale, non solo non ci piace, ma ci appare francamente indifendibile. Serve solo a creare stipendi per docenti spesso di dubbio o nullo valore, per mogli, mariti, amanti, figli e amici degli amici. Gli studenti sono solo un mezzo e non un fine. Abbiamo definito un furto la cultura universitaria, commentando il caso di un docente di Trento che, per fare carriera, si era appropriato del lavoro dei suoi laureandi e ricercatori. Una prassi, da baroni e servi della gleba, che è consolidata in tutta Italia. C’era un pizzico di ironia sentenziosa che evidentemente è sfuggita alla visione corporativa del preside Iachello. Così come - ci pare - gli sfugga che pure lo spreco di risorse, che nulla producono, si può configurare come un furto al futuro dei giovani e alla società. Quanto all’asineria (non all’«asinità», signor preside, che è concetto tomistico, attinente alla "quidditas" dell’asino, e non alle sue effettive capacità), le patenti non siamo noi a distribuirle: basta sfogliare curriculum e pubblicazioni di chi non riesce a vincere da decenni molti dei finti concorsi banditi dalle università (ne conosciamo, preside, per nome e per cognome, e certo ne conosce anche lei...) e confrontarle con la produzione risibile di quanti e quante occupano certe cattedre: anche a Catania. Del resto, i risultati si vedono: l’Italia è da tempo agli ultimi posti per qualità della ricerca (quella vera). Due parole, per finire, sulla «cooptazione» estesa a tutti i livelli della vita nazionale: vorremmo essere sicuri, almeno, che il preside Iachello sappia distinguere fra le aziende private (come i giornali), libere di cooptare chi vogliono, salvo risponderne solo agli azionisti, e gli enti pubblici (come le università) a cui si accede (o si dovrebbe accedere) per concorso. Limpido, trasparente, meritocratico. Appunto, per aggirare tutti quei perversi meccanismi di cooptazione privata che hanno degradato l’università italiana.
In seguito a ciò Iachello invia al direttore e al vice direttore la seguente lettera:
Mi stupisco della volgarità

Carissimi dott. Ciancio e dott. Tempio, ovviamente non intendo replicare alle volgarità di Testa e Scalia. Non mi appartiene questo stile, e questo livello di polemica non mi interessa. Mi permetto solo di far notare che reazioni così volgari forse non giovano né al confronto né al giornale "La Sicilia". Cordiali saluti, Enrico Iachello











Postato il Martedì, 11 novembre 2008 ore 07:40:43 CET di Maria Allo
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