Lo specchio e gli occhiali: vedersi e vedere la scuola
Graziella Morselli
1. Lo stagno di Narciso e la condanna di Eco
Tutti conoscono il mito di Narciso, innamorato della propria immagine e per questo
trasformato dagli dei olimpici nel fiore che ha la corolla reclinata verso lo stelo. Se lo scopo di
Narciso era quello di contemplare il proprio riflesso nell’acqua, certamente preferiva specchiarsi
nell’acqua immobile di uno stagno, dove mancavano le forme di vita organica che potevano
ostacolare con i loro movimenti la visione di un volto sufficiente a se stesso, imperturbabile,
perfetto. Il linguaggio dei nostri tempi ci dà una sola parola per dire in sintesi la caratteristica di
Narciso: era quella che chiamiamo l’autoreferenzialità. Ma certamente non è nell’atto di
contemplare a propria perfezione (essendo tutt’altro che perfetto) che il sistema scolastico appare,
come spesso si dice, autorefererenziale”: poiché invece la sua chiusura è determinata dai vincoli
degli adempimenti normativi e dalle eccessive esigenze burocratiche, i primi a lamentarsene sono
proprio i docenti che vi lavorano.
Eppure i docenti spesso non si accorgono di essere loro stessi a volere e a rinforzare questa
chiusura, nel resistere a richieste che non riescono a soddisfare e nell’opporre ad ogni novità il
programma, le scadenze, l’orario di servizio e così via. La chiusura si fa ancora più rigida e gretta
quando fornisce le giustificazioni per ridurre al minimo il carico del lavoro scolastico, ma questo
discorso può apparire almeno ingiusto, fino a che l’amministrazione continuerà ad autorizzare, in un
certo senso, un tale disimpegno con stipendi o compensi decisamente inadeguati.
Piuttosto si potrebbe dire che l’autoreferenzialità della scuola alimenta il sistema attraverso
il meccanismo perverso che nasce dal rapporto fra il centro direttivo e i suoi dipendenti, i quali ne
riproducono e rafforzano l’azione mediante comportamenti conformi e ripetitivi. Ma siccome, per
fortuna, l’umano non si può spiegare tutto attraverso la metafora dei meccanismi, possiamo servirci
ancora delle metafore mitologiche. Ricordiamo tutti che la ninfa di nome Eco, fu condannata dalla
dea Hera, gelosa dei suoi amori con Zeus, a lanciare verso il cielo i suoi lamenti per sentirli tornare
indietro, inesorabili come la volontà divina. Mi sembra una metafora adatta a farci capire come
spesso noi operatori della scuola non sappiamo far altro che incolpare qualche causa esterna per la
nostra incerta e indefinita identità professionale, mentre la colpa sta propriamente nel fatto che
abbiamo rinunciato a darne noi stessi la definizione, costruendo questa nostra professionalità in
piena autonomia.
C’è, infatti, un modo narcisistico di vedere se stessi all’opera, quando ci rispecchiamo
nell’immagine riflessa e compiaciuta delle nostre capacità e competenze, invece di affrontare i
cambiamenti dell’ambiente in cui operiamo, a cominciare dal metterci in discussione nei confronti
di questa realtà. Perciò siamo esposti ad un destino come quello di Eco che non poteva trovare in sé
la risposta, fino a che non sapremo vedere le cose come stanno. Così a molti docenti capita di aver
bisogno di occhiali speciali per vedere il loro mondo, occhiali che ne colgano le prospettive
molteplici e le variazioni continue.
2. Crisi e riforme: un inseguimento senza fine
Fuor di metafora, domandiamoci quali siano gli aspetti della scuola di oggi che i docenti
dovrebbero saper vedere. Sono innumerevoli, a quanto pare, ma io intendo limitarli a due brevi
elenchi: quelli che portano a problemi impossibili da risolvere se non si compie una radicale
trasformazione della società, e quelli che i singoli docenti possono affrontare, a condizione di essere
disponibili ad una sorta di autoeducazione: questa inizierà con il rendersi conto che il peso di
situazioni che sembrano irrisolvibili è dovuto al sommarsi tra di loro delle due serie di problemi,
mentre una visione più attenta può tenerli distinti, come lo sono il terreno praticabile e quello
impervio per chi esamina la strada da prendere.
I. Problemi “impossibili”
- Non finisce mai la serie delle riforme annunciate, sperimentate, avviate e interrotte, che
tentano di sanare la grande crisi della scuola, e di pari passo procede l’inseguimento di
nuove forme, nuovi metodi, nuovi programmi per “adattare” le modalità dell’insegnamento
alla fuga in avanti di una realtà che sembra sfuggire ad ogni analisi, come ad ogni
commissione ministeriale incaricata di studiare questa o quella nuova riforma.
- La programmazione è sfuggita alla responsabilità di chi insegna, inghiottita dai POF
nell’anomia delle procedure collegiali, nell’assenza di criteri condivisi e, soprattutto,
scientifici. D’altra parte, per quell’effetto dell’autoreferenzialità che si sdoppia tra rifiuto e
rinforzo, di cui ho parlato prima, anche nel programmare i docenti si dibattono tra la loro
buona volontà e i molti ostacoli frapposti dall’istituzione scolastica. La quale, spesso, con i
suoi eccessi di burocrazia è troppo conservatrice, e in altri casi è come affetta da un
iperattivismo che va a coprire il vuoto di proposte autenticamente educative.
- A questo punto ci sarebbe però da chiedersi come si possa parlare di formazione e di
programmazione se si considera il lungo peregrinare dei precari da una scuola all’altra, e
l’incertezza della continuità didattica anche per chi ha una cattedra a tempo indeterminato.
Quale senso può avere ancora la fatica e il costo del programmare e della buona
preparazione nel proprio campo disciplinare, quando piovono dall’alto disposizioni che
accorpano o smembrano scuole di ogni ordine e grado, rivoluzionando tabelle orarie e classi
di concorso?
- La formazione dei docenti, inoltre, è stata spesso malcerta negli anni dell’università e rimane
tale negli anni del servizio, né d’altra parte vi sono più il tempo, l’agio, le risorse per
aggiornarsi autonomamente in base alle esigenze che ognuno incontra nel corso della sua
personale esperienza didattica.
- Tale esperienza appare particolarmente disagevole nei licei, dove le diverse materie non
hanno carattere professionalizzante e perciò spesso sono prive d’interesse per i genitori e gli
studenti, non apparendo funzionali alle richieste della società d’oggi. I docenti lamentano
anche che la maggior parte dei loro alunni non ha la preparazione di base occorrente nel
livello liceale, e che la scuola non ha possibilità di spesa adeguate a ciò che richiederebbe
un’opera seria di recupero.
II. Problemi “possibili”
- La lamentela più generale, anzi corale, in tutti gli ordini e livelli di scuola, riguarda
l’impossibilità di vincere il nozionismo in cui si sono rifugiati i giovani, e di impegnarli in
modo continuativo a riflettere, discutere, approfondire. Si afferma, a questo proposito, che il
guasto è dato dall’abbassamento della cultura, ovvero dall’invasione dei media,
principalmente la televisione e la navigazione in Internet. Tutti effetti, si dice, di una cultura
di massa, sostenuta da mirabolanti supporti tecnologici, che sta per travolgere anche le più
serie motivazioni allo studio
- Vi sono non pochi motivi di difficoltà relazionali all’interno degli organi collegiali e dei
gruppi di lavoro, le quali possono intralciare o far fallire i progetti. L’altra e maggiore
difficoltà, del resto, sta nel rapporto tra insegnanti e studenti, rapporto che, se è tra le finalità
della progettazione scolastica, è però anche la condizione per realizzarli: occorre tener
presente che questo rapporto avviene sul terreno pratico in situazioni sempre difformi, con
protagonisti che sono individui dissimili e che, sebbene stiano insieme, non necessariamente
e sempre partecipano all’opera che dovrebbe accomunarli
- Gli stessi insegnanti, tuttavia, toccano con mano quotidianamente che il piano operativo
della didattica non è più praticabile secondo le modalità abituali, siano empiriche e intuitive
o razionalistiche e formalizzate. Mi viene in mente, a tale proposito, questo passo del libro
Costruttivismo e formazione, del collega Antonio Cosentino, impegnato da tempo in corsi
universitari destinati agli insegnanti: “sebbene modelli e procedure della razionalizzazione
didattica siano stati da tempo introdotti dalla nostra legislazione scolastica […] nella realtà
della prassi didattica questi sono mediamente assunti come rituali di un formalismo
burocratico che non ha intaccato la sostanza del rapporto educativo. Da questo punto di
vista, la maggioranza degli insegnanti italiani – soprattutto nella scuola secondaria –
continua ad affidarsi all’improvvisazione…”1.
- Sarebbe interessante analizzare i motivi di questo improvvisare, che a mio avviso è una
pratica poco produttiva eppure obbligata, nelle condizioni in cui si lavora a scuola; ma non
intendo qui aprire una polemica con l’autore, quanto invece avvalermi, come farò, dei
preziosi consigli che dispensa nel suo libro.
- A tutto ciò vanno aggiunti i problemi che pesano particolarmente sulle docenti in quanto donne:
da una parte la svalutazione della loro professionalità, causata dal perdurare di antichi stereotipi
nella percezione sociale, dall’altra parte il carico della famiglia, non solo in senso fisico, ma
anche in quello psichico. Tale carico, che l’aiuto di un marito volenteroso allevia solo in parte,
oltre ad assorbire molte energie che potrebbero essere impiegate nel consolidare e arricchire il
loro bagaglio di competenze, ha spesso per le insegnanti lo sgradevole aspetto di una trappola,
essendo stato in molti casi la condizione stessa della loro scelta professionale: infatti, nonostante
il mestiere dell’insegnante veda crescere sempre di più responsabilità, tempo di lavoro,
adempimenti (rimanendo tuttavia fra i meno pagati) a chi guarda dall’esterno della scuola
continua ad apparire più compatibile di altri con gli orari e gli impegni familiari.
Prima di vedere insieme quali comportamenti siano i più adatti a convivere senza eccessive
frustrazioni con i problemi “impossibili”, e come operare, al tempo stesso, in modo da trovare
soluzioni per quelli “possibili”, vorrei farvi considerare l’importanza di un certo reagente, o fattore
di contrasto, che è a nostra disposizione come una chiave per aprire spazi e orizzonti di senso su ciò
che facciamo. E’ una chiave che offre la stessa scuola, nel rapporto quotidiano con i giovani: qui
l’adulto si sente messo alla prova, richiamato alla sua responsabilità, quasi sfidato sul piano
dell’autorevolezza e del merito, e tuttavia, in cambio, riceve risposta dagli studenti che gli si
affidano o che in modi inattesi scoprono il valore delle conoscenze che presentiamo loro. E’ anche
vero che si tratta di risposte inconsapevoli, per lo più non riconosciute dagli stessi soggetti e quindi
non espresse, ma ciò nonostante è difficile che gli insegnanti, anche se non si sentono educatori né
si interessano di pedagogia, possano sottrarsi all’esperienza che le produce. Se volessero sottrarsi
finirebbero col perdere il vero significato del loro mestiere, che risiede soltanto nell’avventuroso
contatto con i giovani, colmo di esigenze ma anche di reciproco arricchimento.
Grazie a questa chiave, dunque, è possibile predisporre la resistenza e insieme l’inventiva
necessarie per affrontare gli scogli di una navigazione che si svolge fra Scilla e Cariddi, possiamo
dire ricorrendo ancora ai miti, ossia fra altalene di momenti contrarî, ora gratificanti ora
angosciosi…
3. Tipi, generi e identità
Abbandonando la mitologia, torniamo alla metafora degli occhiali speciali, ripetendo in
sintesi l’elenco dei problemi “possibili”. Che sono: a) abbassamento del livello culturale della
società e perdita di motivazione e concentrazione negli alunni; b) scarsa possibilità di contare su
buone relazioni di lavoro tra colleghi e con gli alunni; c) insufficiente ricorso a pratiche razionali
nella didattica da parte degli insegnanti, che sono troppo esposti a insicurezze, precarietà e mobilità
forzata; d) incongruenza dell’impegno richiesto alle docenti a fronte del carico di compiti familiari e
della scarsa considerazione sociale che grava su di loro.
Di fronte a questo quadro, e in via preliminare, vorrei farvi considerare altri reagenti o fattori di
contrasto che, essendo più specifici e affidati piuttosto a tipi di docenti che all’intera categoria,
consentono di dare anche qualche suggerimento pratico, come si vedrà per ognuno dei quattro punti
richiamati:
a chi conosce bene la propria materia e sa trattarla con chiarezza, e soprattutto non la riduce a
serie di nozioni astratte dalla vita, contribuisce a tener alta sia la cultura sia l’interesse allo
studio. A tale scopo conta molto anche il rispetto per ogni alunno visto come individuo con
proprie capacità: così otterrà di destare in ciascuno delle motivazioni e di portarlo a costruire
il proprio metodo;
b il lavoro comune nelle classi e nei gruppi di docenti è possibile, ci suggerisce Antonio
Cosentino, quando nella sua articolazione e distribuzione si riesce a integrare le attività e le
disposizioni mentali dei soggetti partecipanti con le pratiche socio-culturali dell’ambiente,
tanto da far intravedere le potenzialità di un’autentica interazione degli individui, riguardo
alla produzione di nuovi significati e di nuovi modi di vita sociale2;
2 “intervenire consapevolmente nel processo per cui un soggetto si forma interiorizzando e rielaborando attivamente le
forme di vita ed i significati che circolano nel contesto culturale in cui è situato, partecipando, nello stesso tempo, ai
processi di trasformazione di questo stesso contesto”; Antonio Cosentino, op. cit.., parte seconda, cap. 6, Articolazioni
dell’agire formativo (p. 176)
c prendendo qualche distanza dai suggerimenti di Cosentino, provo ad avanzare una tesi di
natura fenomenologica, sostenendo che il cambiamento nella didattica veramente decisivo,
più che nell’incrementare la razionalità delle metodologie e renderle più efficienti, consiste
nell’assumere un diverso atteggiamento mentale nei confronti della materia d’insegnamento.
A questo voglio dare il nome di “atteggiamento interrogante”, che è propriamente la
tendenza di chi si domanda circa le scienze, le discipline e le rispettive procedure, pur
conoscendole, come siano originate. Da qui l’abitudine di trattare la materia d’insegnamento
non in modo puramente tecnico, ma facendo chiaramente capire come sia il frutto di un
processo storico senza fine, e che le sue ipotesi e teorie (invece che essere indubitabili o
definitivamente provate) sono destinate ad essere sempre di nuovo sostituite, per opera di
quel lavoro di costante verifica e correzione che si fa in sede scientifica come in sede critica
e interpretativa.
d un maggiore lavoro tocca forse fare alle docenti, su se stesse e sul proprio ambiente sebbene,
per la verità, oggi non partano da zero!…certamente sotto le apparenze permangono le
vecchie mentalità, eppure è ormai palese come proprio nella scuola pubblica si sia potuto
stabilire un rapporto paritario delle docenti con i colleghi maschi, e come il vivere in questo
ambiente di lavoro aiuti le une e gli altri a liberarsi dagli stereotipi, dalle remore, dai
complessi di inferiorità. Vi sono anche nelle scuole, indubbiamente, i casi nei quali una
donna deve intraprendere con fermezza la difesa dei propri diritti e della propria dignità, e
ciò soprattutto quando è messa in pericolo la difficile composizione che ha raggiunto tra
l’identità data dall’appartenenza di genere e l’esercizio di una professione complessa e di
grande responsabilità. Occorre precisare che la parola “genere” è adoperata dal pensiero
femminista per indicare che le persone sono caratterizzate solo in parte per la loro specificità
biologica, in quanto il modo di vivere e di atteggiarsi è legato ad elementi culturali di una
data epoca storica e di una data società: questi determinano il genere cui le persone sono
ascritte e attraverso il quale sono identificate.
Tuttavia, per quanto riguarda la tesi fenomenologica che ho esposto al punto c, mi
sembra che le donne sono già pronte a interrogare i saperi nella loro origine. Per due motivi:
il primo deriva dalla loro esperienza quotidiana di grandi e piccoli assalti alla propria
identità, che le ha costrette a chiedersi da dove questa provenga, mettendo così in
discussione qualcosa che prima credevano fosse parte della loro natura; il secondo è forse
collegato agli istinti biologici dell’accudire riproduttivo e al loro portato storico-culturale: è
una disposizione alla vita di relazione che porta a considerare la persona prima di ogni altra
cosa. Per questi due motivi mi sembra che le docenti non sono disposte, o lo sono più
difficilmente dei colleghi maschi, a “idealizzare” le tecniche pedagogiche e didattiche come
fossero finalità assolute, e sanno inoltre occuparsi dei loro alunni “dall’interno”, per così
dire. Come fossero da sempre consapevoli che tutte le operazioni degli educatori hanno
come vero e necessario riferimento l’interiorità dei soggetti.
4. Il modello dell’ologramma
Al centro, dunque, sta la persona, e ciò vale non solo per la considerazione del soggetto del
compito educativo, ma anche per la posizione da assumere come docenti, in quanto si é consapevoli
del diritto alla propria autonomia e di ciò che questa comporta. Così si è al centro per la
consapevolezza dei rischi, per la capacità di prendere su di sé le responsabilità delle proprie
decisioni, per la conoscenza dei nodi da affrontare con le cause che li provocano e, soprattutto, per
la disposizione a cambiare se stessi lungo il percorso delle prove e delle avventure che ogni giorno
porta con sé. Di rischi, nodi e responsabilità ho parlato di proposito, convinta come sono che ciò che
spesso fa problema nella professione di docente non è che il derivato di un accumulo di
contraddizioni, inerzie, scetticismi, sordità al nuovo, attaccamento al passato e veri e propri misfatti
e prepotenze nei riguardi dei diritti delle nuove generazioni.
Non mi sembra, d’altra parte, che quelle che ho fino adesso delineato siano virtù rare e
introvabili, perché conosco molte e molti insegnanti che hanno uno “stile” professionale, ossia
hanno saputo costruire un proprio modello di comportamento. Non tutti, però, si sono liberati
dall’errore di fissare il loro come uno stile definito una volta per tutte, quasi fosse sacralizzato dal
timbro personale: infatti io penso ad un modello da costruire man mano. La sua base saranno gli
spazi di autonomia possibili a partire dalla libertà costituzionale dell’insegnamento, come pure da
una sicura competenza, sia disciplinare, sia sugli aspetti metodologici dell’insegnamento in
generale, sia sulla didattica della propria materia. Un modello siffatto, da convalidare in seguito
nell’esperienza collettiva ed evitando le chiusure individualistiche, potrà alla fine essere la
dimostrazione dell’equilibrio raggiunto tra la propria formazione, gli aspetti irrinunciabili della
disciplina insegnata, e quei compiti educativi che alla libertà d’insegnamento pongono dei confini in
relazione ai diritti degli studenti.
Vedo tale costruzione come fattibile se indirizzata verso gli aspetti della complessità
“ologrammatica”3 : dove, stando a un termine preso dalla matematica, stanno insieme la totalità e le
differenze, le individualità e la collettività, l’appartenenza di genere e il confronto con gli altri,
uomini e donne, giovani e adulti, le catene di generazioni distese nel tempo e l’eterogeneità dei
gruppi che partecipano allo stesso progetto, le utopie che ai progetti aprono orizzonti futuri e le
realtà del pluralismo in cui la convivenza è già presente. E vedo che la via per realizzare questo
apparente ossimoro di unità con differenze, è già praticata da quegli insegnanti che con le loro classi
frequentano e confrontano i diversi piani di verità, riconoscendo da una parte la pluralità delle
espressioni culturali presenti in un mondo complesso, dall’altra i segni dell’apertura e
dell’innovazione visibili in ogni ramo del sapere. La loro didattica non ha come presupposto corpi
costituiti e saldi di conoscenze, in quanto mira piuttosto a far vedere la feconda instabilità che
governa le cose, o, in altre parole, a mostrare come e perché le cose stabilite secondo un certo
sistema di idee potrebbero stare altrimenti, dato che i sistemi sono destinati a mutare, e mutano
anche più rapidamente in una società aperta.
Mi sembra, per concludere, che sia uno “stile” molto praticabile dalle docenti che sono
oramai ben consapevoli delle conquiste realizzate dal pensiero delle donne. Il quale ha rilevato e
demitizzato il complesso degli stereotipi misogini e le pretese di neutralità, presenti in ogni discorso
costituito come sapere, e come espressione dell’ordine che detta le regole e le certezze.
Così possiamo ben dire che le donne che lavorano nella scuola potranno fare dal basso quei
cambiamenti che attendiamo invano dall’alto, impersonando il tipo di professionalità autonoma e
competente in grado di sciogliere le difficoltà del lavoro quotidiano. Trattando le discipline, le
classi, i singoli studenti, i gruppi di lavoro, con l’atteggiamento interrogante e relazionale che è
richiesto di fronte a tali problemi, esse contribuiranno a svecchiare la scuola rovesciando molti
luoghi comuni sui quali si è per secoli fondata. Non si tratta di adeguare la scuola ad una moda
destinata a tramontare come sono tramontati i più accesi movimenti del femminismo. Si tratta
invece di rispondere ad un suo compito, che è di prendere atto dei decisivi avanzamenti culturali e
scientifici avvenuti nel nostro tempo, e di darne conto senza eccessivi ritardi alla nuova
generazione, con una visione aggiornata dei cambiamenti della mentalità collettiva, ma anche del
modo di procedere del lavoro delle scienze, che non si svolge come fosse fuori del tempo.
3 cfr. Edgar Morin, Le vie della complessità, in La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Milano
1991