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Università: Accesso all'università. Un passo verso una giusta «uguaglianza»

Rassegna stampa

È solo un piccolo segnale, ma sarebbe sbagliato non coglierne il significato. Con un provvedimento a firma dei due ministri competenti (Fioroni e Mussi) il Governo ha stabilito che, nel determinare l'accesso alla facoltà universitarie dove sia previsto il numero chiuso, si tenga conto - oltreché dell'esito delle prove selettive specifiche - anche del rendimento scolastico degli ultimi anni.

Le persone di buon senso potrebbero persino stupirsi che si arrivi ad un siffatto orientamento soltanto ora. Peraltro, il parametro del rendimento scolastico non sarebbe comunque prevalente, in quanto inciderebbe per meno di un terzo sul punteggio complessivo. Perché allora questa misura fa discutere, suscita interesse e magari anche qualche polemica? Perché lo stabilire che quanti hanno preso migliori voti durante il percorso formativo sono favoriti nel proseguimento degli studi sembra una decisione innovativa, addirittura sconvolgente di un andazzo al lassismo sempre accettato supinamente? La risposta è semplice. Nella scuola non si è ancora chiuso il «sessantottismo». Ne rendeva pubblica testimonianza, proprio un insegnante - giorni addietro - in una coraggiosa intervista al Giornale.

Da noi, la selezione, la meritocrazia sono considerati valori negativi. Ricordiamo ancora con commozione la «Lettera ad una professoressa» di don Milani. Il priore di Barbiana metteva in evidenza che una scuola selettiva era portata a conservare le differenze sociali, promuovendo i ragazzi delle famiglie benestanti (perché conoscono le fatidiche «mille parole» e trovano in casa un ambiente che li agevola negli studi) mentre emarginava i figli dei nuclei disagiati. In sé l'intuizione del sacerdote era giusta e corretta. Quando si riconosce un diritto allo studio è assolutamente doveroso che la scuola assicuri ai cittadini quella formazione di base che li rende effettivamente autonomi e responsabili.

Purtroppo su questa «frontiera» il sistema formativo italiano è lontano dall'aver vinto la battaglia: troppe sono le violazioni dell'obbligo scolastico, troppi gli abbandoni e le ripetenze. Spesso gli insegnanti sono demotivati, incapaci o impossibilitati ad esprimere quell'autorevolezza che è senz'alcun dubbio un requisito della persona, ma che deve necessariamente poggiare sul principio di autorità, accettato e condiviso dagli alunni e dagli studenti. È al ristabilimento di questo principio che guarda Nicolas Sarkozy quando afferma che nella scuola i ragazzi devono alzarsi in piedi quando l'insegnante entra in aula. Oggi capita sovente che i docenti si accontentino di mantenere un livello contenuto e sostenibile di indisciplina e che considerino l'apprendimento un problema degli studenti.

Sono ancora nel dna della scuola e dell'Università i residui del voto politico, in nome di una concezione sbagliata dell'eguaglianza. In tale contesto le famiglie finiscono per rivendicare non già che i loro figli escano dalla scuola colti e capaci di affrontare l'inserimento del mondo del lavoro. Il diritto allo studio è divenuto il diritto alla promozione. Lungo questa via cresce solamente la malapianta del declino della società.

Dei giovani che non sanno usare al meglio l'unico periodo della vita in cui sarà loro consentita l'opportunità di studiare a tempo pieno, usciranno dalla scuola impotenti nell'affrontare le prove della vita e costretti a lamentare condizioni di lavoro spesso inadeguate, non sufficientemente rispettose, a loro dire, dei diritti. E dimenticheranno così il grande insegnamento di George Danton, il quale soleva affermare che gli esseri umani dispongono solo dei diritti che sono capaci di difendere.

Giuliano Cazzola (da www.lasicilia.it)









Postato il Sabato, 28 luglio 2007 ore 20:27:21 CEST di Renato Bonaccorso
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