
Il Filosofo, nato a Pescasseroli (del quale ricorrono quest’anno i sessantacinque anni dalla morte avvenuta a Napoli il 20 novembre 1952), diventa definitivamente “napoletano” dopo aver ricevuto l’ospitalità romana presso lo zio Silvio Spaventa, a seguito della perdita dei genitori e della sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883 e la decisione di trasferirsi nella casa che fu l’abitazione di Giambattista Vico, il suo più diretto e acuto predecessore nella visione storiografica. La bella metropoli adagiata sul Tirreno con lui ascende a capitale della cultura nazionale ed internazionale. Egli assume il ruolo di promotore di critica storica e letteraria e di caposcuola dello storicismo italiano, diverso da quello di Hegel e dei suoi epigoni tedeschi. Lo storicismo crociano non è né giustificazionista né nazionalista, ma laico, libertario e aperto alla comprensione totale della realtà passata con tutta l’energia razionale e la tensione etica dell’attualità.
La sete di profonda e ampia comprensione mette in moto la categoria storiografica che ingloba sensibilità e interesse verso la contemporaneità, quel mondo dell’attualità nel quale ci tocca vivere, lavorare e agire, e che trasforma anche il passato più remoto in storia contemporanea, perché esso investe direttamente e dall’interno la nostra sfera intellettuale e tutta la nostra esistenza più intima. Questa è, a parer mio, la connotazione principale dello storicismo crociano, che è pensiero e azione, metodo e contenuto, forma e materia. E con la scoperta della contemporaneità storica, assai semplice in verità ma fondamentale, il Filosofo napoletano può procedere sulla via della ricostruzione etico-politica degli eventi storici e strutturare una storiografia davvero esemplare senza cedere al filologismo fine a se stesso e alle posizioni ed emozioni partigiane e soggettivistiche, agli interessi di parte che non costituiscono giudizio storico, giacché sono privi di verità, di imparzialità e di vera capacità cognitiva. E ciò si deve verificare pure in considerazione del fatto evidentissimo che la storia viene costruita e ri-costruita continuamente in funzione della vita pratica attuale e dell’agire etico-politico: “Cosicché è da dire, conchiudendo, che la conoscenza storica sorge dall’azione, ossia dal bisogno di schiarire e nuovamente determinare gli ideali dell’azione oscurati e confusi, e che, col pensare l’accaduto, rende possibile la loro nuova determinazione e prepara la nuova azione” (Benedetto Croce, “La storia come pensiero e come azione”, Laterza, Bari 1966, p.162). Tutta la storia è dunque storia “contemporanea” ed essa deve contenere e appagare il bisogno di conoscenza e imparziale.
Benedetto Croce, con un incessante e severo lavoro di scavo teoretico, definisce le coordinate della “buona” storiografia e contestualmente realizza le sue grandi opere storiografiche nella famosa trilogia: la “Storia del Regno di Napoli” del 1925, la “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”, che è del 19 28 e la “Storia d’Europa nel secolo decimonono”, che è del 1932. Queste opere, scritte e pubblicate in un brevissimo arco di tempo, sono dei capolavori di scrittura, di pensiero e di metodo. E non si può dire che esse non siano state generate nel momento cruciale sia della storia d’Italia sia della storia europea. In esse aleggia una forte lezione di liberalismo aperto e intelligente che vuole muovere all’azione prudente e che gli antifascisti intendono pienamente e mettono in atto in stretta aderenza al duro “Manifesto degli intellettuali antifascisti” elaborato e messo in circolazione dallo stesso Croce nel 1925.
Dunque, la contemporaneità della storia, ovvero quel passato che non passa mai perché è sempre un presente di fronte alla coscienza dello storico, costituisce il cardine dello storicismo crociano e della stessa scientificità storiografica come la intende il nostro Filosofo, che non perde di vista l’obiettivo della verità acquisita anche e soprattutto in modo puntuale e filologicamente esatto e quello della formazione liberale per un progetto etico-politico di giustizia e di emancipazione umana da realizzare sul terreno storico. Per questa ragione lo storico non può essere uomo di parte, privo di larga umanità e vuoto di cultura. Egli non può essere né guelfo né ghibellino, ma libero cittadino del mondo storico, ovvero libero intellettuale in una libera comunità. E così la storia d’Europa non è una semplice vicenda di guerre e di conquiste, ma storia di libertà e di liberazione; come la storia d’Italia che ha inizio con l’unificazione dei suoi popoli pre-unitari e non prima che venisse a compimento l’unità nazionale come presupposto dell’emancipazione culturale e civile che la nuova cittadinanza porta con sé e diffonde tra i cittadini del nuovo Stato, introducendovi una legislazione più progressiva delle precedenti pre-statali indipendenti autonome: “E’ questo lo schizzo di una storia dell’Italia dopo la conquistata unità di stato, ossia non una cronaca come se ne hanno già parecchie in materia, e non una narrazione in un senso o in un altro tendenziosa, ma appunto il tentativo di esporre gli avvenimenti nel loro nesso oggettivo e riportandoli alle loro fonti interiori” (B.Croce, “Avvertenza” alla “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”, Laterza, Bari 1966, p.VII).
Benedetto Croce, lo storico della “serena” ricomposizione e conciliazione, degli opposti, colui che avrebbe visto la nazione unita e pacificata, in felice ascesa, sociale e spirituale, per onorare la verità dei fatti e dei giudizi, è costretto invece a raccontare i turbamenti, la scomposizione e le drammatiche fratture aperte dagli interventisti nel corso della prima guerra mondiale. Si tratta di ferite gravissime che determinano conseguenze pesanti e tragiche nella storia successiva del nostro Paese. L’interventismo, dice il Croce nelle ultime pagine della sua “Storia d’Italia”, è infatti una prima tappa di un processo inarrestabile verso il baratro del fascismo con la messa in crisi dei rapporti di cittadinanza e di civiltà: “I nazionalisti volevano la guerra per giungere attraverso la guerra al successo e alla gloria militare, all’espansione industriale, al soverchiamento del liberalismo e al regime autoritario, per sostituire all’Italia del Risorgimento un’altra Italia, rigenerata nella moderna plutocrazia, non impacciata da ideologie e da scrupoli” ( Benedetto Croce, “Storia d’Italia”, cit., p. 264). Così il rigore metodologico e la tensione etica costringono lo Storico napoletano a seguire e raccontare la vera storia degli eventi terribili con la massima acribia e con le tinte realistiche del pessimismo storiografico.
prof. Salvatore Ragonesi