"L'Europa
lo vuole"…
Si risente di nuovo la canzone che ci portò alla laurea 3+2, ovvero al
disastro dell'università italiana. E stavolta è vero che l'eurocrazia -
non gli europei, l'eurocrazia -, più potente e arrogante che mai, lo
vuole davvero, poiché ha già chiesto imperiosamente al governo Monti di
valutare gli insegnanti in base ai rendimenti dei loro alunni stimati
mediante i test Invalsi. E
naturalmente un governo di tecnocrati come questo lo farà, eccome, con
il consenso trasversale di una politica e di una democrazia
boccheggianti. Che questo abbia qualcosa a che fare con il
risanamento dell'economia italiana possono crederlo soltanto gli
ingenui o i frequentatori degli inginocchiatoi di fronte alla detta
eurocrazia. I quali intonano, sempre
in ginocchio, il ritornello della valutazione "oggettiva e misurabile",
ignorando a priori qualsiasi argomento in senso contrario. Del resto,
gli atti di fede si recitano come una messa cantata.
Intanto, all'estero - preferibilmente fuori d'Europa - si moltiplicano
le voci che criticano sempre più aspramente testing, accountability e
valutazioni quantitative. Fra
gli ultimi contributi, segnalo il recente articolo di John Ewing,
"Mathematical Intimidation: Driven by the
Data": http://www.ams.org/notices/201105/rtx110500667p.pdf http://gisrael.blogspot.com/2011/11/il-governo-monti-ricomincia-col-testing.html
Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all'analisi
dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi,
rappresentativo di una tendenza generale. Si elencano cinque verbi che
indicherebbero tutti un "modo di ridere", ovvero un unico stato
psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi
dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare.
Si chiede di metterli in "ordine crescente di intensità". La risposta
è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l'alunno acquisirebbe la "competenza" di
distinguere le "sfumature di significato".
Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia
profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano
differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha
proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un
"sorriso amaro", di un "sorriso di simpatia", di un "sorriso ironico",
e anche di un "triste sorriso". Nessuna relazione necessaria col ridere
che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una
reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse
quest'ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare,
anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti
specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere
considerato un'intensificazione del ridere; non certamente il ridere
un'intensificazione del ridacchiare.
Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s'intende formare con un
simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che
trasforma l'interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti
numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per
l'aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che
l'esempio proposto non è isolato, bensì tipico.
Nei test Invalsi proposti ai licei si proponeva un brano di un racconto
di Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un
soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei
riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo,
«arrabbiata per quella stupida caduta». Perché – chiede il quiz – la
ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di
queste risposte: A. È seccata dall'invadenza del militare; B. Si
vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere
caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché
non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato
psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di
qualcos'altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta
chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in
maniera "esatta" può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova
una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la
ricchezza e l'ambiguità dell'analisi psicologica proposta da un testo
letterario di autentico valore.
Del resto, quando l'uso dei test travalica la verifica di semplici
capacità minimali – ortografia, regole grammaticali di base, capacità
di far di conto – è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del
presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in
materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di
approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento
preciso: sull'uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni»
scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al
fine generale di accrescere «i livelli d'istruzione della forza lavoro»
e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto
di tecnocrazia è malizioso. Per una
scuola che sta perdendo l'anima – declinando sempre più verso lo stato
di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime
preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell'insegnante
e la formazione di soggetti consapevoli e motivati – non si trova di
meglio che parlare di "test", nella cornice di un linguaggio
economicista, a base di "capitale umano", "forza lavoro", "fabbisogni"
e "aree in ritardo"? Invece di capire che quello di cui ha bisogno
l'istruzione è soprattutto di motivazioni profonde e di restituzione
del "senso" della propria missione? Davvero malinconico.
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