Premetto di essere
totalmente d’accordo sia con quanto scrive Stefanel, sia con
l’ispirazione di fondo dalla quale muovono le sue osservazioni.
Il “dimensionamento” è, all’origine, un processo reso necessario dalla
stessa istituzione dell’autonomia scolastica. La novità radicale
costituita dall’autonomia comportava infatti la individuazione delle
dimensioni ottimali che questo nuovo “ente pubblico” (tale è la scuola
autonoma) avrebbe dovuto assumere per svolgere il ruolo previsto e per
farlo con “efficacia, efficienza, economicità”.
Non si dimentichi che proprio la proliferazione degli enti pubblici
(quello che Sabino Cassese chiamò “l’entismo”) ha costituito
storicamente uno dei fattori di inefficienza e di spreco che per anni
hanno aumentato i costi della macchina pubblica italiana, ne hanno
opacizzato il funzionamento, lo hanno allontanato da sensate procedure
di controllo e di
rendiconazione.
La scelta che fu fatta allora di caratterizzare le
istituzioni scolastiche autonome come “enti pubblici”, creandone
diecimila nuovi in controtendenza con lo sfoltimento che era ed è in
opera dai tempi di Massimo Severo Giannini, come strumento di bonifica
della Pubblica Amministrazione, (una scelta discutibile, non obbligata,
e che avrebbe avuto altre opzioni possibili..) doveva essere
accompagnata da preoccupazioni e iniziative che almeno ne
individuassero dimensioni tali da consentirne una gestione efficace ed
efficiente, oltre che aderente alle funzioni istituzionali.
I parametri che allora si individuarono (600 alunni) corrispondevano in
realtà ad una sorta di “media” della realtà, e non, come sarebbe stato
necessario, ad un effettivo accertamento delle dimensioni ottimali per
una “impresa” come la scuola.
Per inciso: sappiamo individuare tali dimensioni ottimali per qualunque
impresa in qualunque settore (sono infatti diverse da settore a
settore: una impresa petrolchimica ha dimensioni ottimali diverse da
una per esempio di minuteria meccanica). Ma non esistono studi seri per
individuare quelle ottimali per la scuola? E perché? Provare a
rispondere alla domanda con qualche onestà intellettuale e non con
richiami a specificità autoassolutorie….
Pur tuttavia per oltre dieci anni abbiamo lavorato sostanzialmente in
deroga a tali indicazioni dimensionali, già per sé discutibilmente al
ribasso.
Una deroga assunta sia dall’amministrazione scolastica sia dalle
Regioni che progressivamente hanno acquisto le competenze relative.
Oggi si grida, e giustamente, al potenziale esproprio di tali
competenze contenuto nei recenti provvedimenti governativi. Ma mi
chiedo quante e quali Regioni in questo decennio hanno predisposto, con
l’autonomia giustamente rivendicata e sacralizzata dalla riforma
costituzionale, un effettivo progetto di pianificazione territoriale
del servizio scolastico.
Se dieci anni vi sembran pochi…
Oggi i nodi decennali vengono al pettine sotto l’incalzare della “crisi
fiscale” dello Stato, per altro preannunciata almeno dalla metà degli
anni ’80, e “arricchita” da tutti gli altri elementi di crisi maturati
negli ultimi anni di delirio finanziario. E si sa, se al pettine
giungono nodi intrecciati da tempo, sempre più doloroso sarà il
scioglierli.
In realtà le proposte avanzate hanno il medesimo difetto della deroga
utilizzata per (non) affrontare il problema negli anni trascorsi: la
“cecità”.
Lo dico sempre ed anche stavolta: la cecità con cui l’amministrazione
“taglia” è identica a quella con la quale l’amministrazione “spende” (o
ha speso).
E’ ovvio che una organizzazione di 1500 alunni non è la stessa di una
di 300 alunni. Ha ragione, su questo, Antonio Valentino. Ma quale
vogliamo, la prima o la seconda? E nel caso siamo, come Stefanel, per
apprezzare le “economie di scala” (da tutti i punti di vista che lui
elenca) per una scuola “più grande”, a quali condizioni organizzative?
Come ovvio ad un ampliamento delle dimensioni quantitative non può che
corrispondere una "complessificazione" della struttura organizzativa.
Ma in quali direzioni?
Vi sono elementi di “cultura organizzativa” che, sotto tale profilo,
non sono specifici della scuola, ma condivisi da ogni organizzazione:
la struttura ed il contenuto della ripartizione dei compiti decisionali
ed operativi; il carattere della direzione; il carattere della
comunicazione interna; i repertori di ruoli e declaratorie
professionali necessari.
Troppo lungo, qui, riprenderli tutti. Mi limito a citarne tre e sempre
sotto il profilo problematico.
Il primo è quello sul carattere della direzione. Quale profilo per il
ruolo del dirigente scolastico?
Qui uso il termine “profilo di ruolo” con la semantica propria
utilizzata nel pensiero organizzativo: il profilo di ruolo non è una
“declaratoria formale”, sancita normativamente e dunque “erga omnes”,
come quella che si può reperire in un bando di concorso. Il “profilo di
ruolo” è ciò che l’organizzazione si aspetta da chi vi opera. Quella
specifica organizzazione.
Io trovo di grande interesse le esercitazioni di riflessione, per
esempio, sulla “leadership pedagogica”. Ma intanto occorrerebbe
rispondere alla domanda: cosa ci si aspetta da un dirigente che sia
responsabile di una struttura di 1500 alunni, di oltre un centinaio di
persone che, a vario titolo vi operano, di un certo numero di sedi
locali, di un “prodotto” che risponde ad un diritto fondamentale di
cittadinanza e che dispone di un interlocutore immediato costituito
dalla comunità locale di riferimento?
Intorno all’anno 2000, con l’innovazione costituita dall’autonomia, gli
allora Presidi e Direttori furono coinvolti in una grande (e positiva)
stagione di riflessione professionale che fu la premessa per la loro
trasformazione in Dirigenti Scolastici.
A mio parere dovremmo organizzare una stagione simile, contrassegnata
dalla modificazione dimensionale “dell’impresa scuola”, se avessimo il
coraggio di non ritrarci semplicemente in una trincea tesa a “limitare
i danni” (e con una oggettiva e progressiva ritirata) e a rinviare i
processi.
Occorrerebbe avere il coraggio di “rilanciare” immettendo “intelligenza
di pianificazione territoriale” entro un meccanismo di taglio
strutturale il cui difetto fondamentale è la “stupidità quantitativa”.
E su tale intelligenza rilanciare sulla figura e sul ruolo del
Dirigente Scolastico, con le necessarie iniziative sia di elaborazione
culturale che di formazione.
La seconda considerazione riguarda la complessificazione della
struttura gerarchica e di suddivisione dei compiti di direzione che il
mutamento dimensionale comporta.
Nessuna organizzazione sensata regge una struttura a due livelli: un
“dirigente” ed uno strato orizzontale di “pari”. Tanto meno se i
“numeri” si amplificano.
Certo esistono le figure delle funzioni strumentali, dei collaboratori,
dei “vicari”. Costituiscono l’esperienza fatta sul campo in questi
anni, ma sono segnate inevitabilmente dal paradigma organizzativo
primario (il dirigente e il “gruppo di pari”). Ne sono segnate per
meccanismi di individuazione (le deliberazioni del “gruppo di pari”
mistificate da “democrazia” e invece spesso segnate da dinamiche
collettive non proprio esemplari); per processi di consolidamento
professionale; per incentivi e riconoscimenti, economici e non.
Consolidare e “rendere organici” i livelli organizzativi “intermedi”e
le responsabilità connesse in funzione di una organizzazione ampliata e
complessificata.
Del resto, detto tra parentesi, la leadership consiste sempre nella
“gestione del potere”. Negare tale dimensione è solo cercare la foglia
di fico. Come si gestisce il potere rappresenta il carattere, la
miseria o la nobiltà della leadership. Un leader che sappia saggiamente
distribuire il potere lo esercita al massimo grado. E un leader che
sappia individuare e “trarre a sé” la leadership pedagogica (che la
eserciti lui stesso o che, più realisticamente, la individui in un o in
un gruppo di docenti) sarà effettivamente tale.
La terza questione riguarda la gestione delle risorse. Il
dimensionamento (se fosse sensatamente opera di studiata pianificazione
territoriale e non “taglio lineare”) dovrebbe costituire l’occasione
per rivedere profondamente i modelli di gestione.
Dalle risorse umane a quelle economiche.
Per esempio, rispetto alle prime, sfruttando completamente le
potenzialità contenute nello stesso Regolamento dell’autonomia e
raramente o mai utilizzate: chi impedisce, per esempio in un istituto
comprensivo o omnicomprensivo, come lo vorrebbe Stefanel (e sono
d'accordo), l’uso “verticale” della professionalità docente ?
Perché le competenze particolari di un maestro non possono essere
utilizzate nel corso della media, quando siano utili? Perché un
professore di inglese della media non può essere utilizzato per
l’inglese della elementare invece di ritrovarsi con maestri che hanno
fatto un corso di inglese di 300 ore e che al massimo hanno imparato
l’inglese ma certo non ad insegnarlo? E che dire “dell’organico di
rete” la cui possibilità è per altro delineata nello stesso regolamento
dell’autonomia?
Per quanto attiene alle risorse economiche la stagione del
dimensionamento potrebbe essere anche quella del superamento di molti
dei caratteri del regolamento contabile e finanziario delle
scuole che assimila la loro gestione a quella del Bilancio dello Stato
e ai suoi vincoli formali.
Di nuovo il richiamo al Regolamento dell’autonomia e, a questo
proposito, al dichiarato (e mai rispettato) carattere “budgetario” del
finanziamento delle scuole e della gestione delle loro risorse.
Vi sono anche qui responsabilità e corresponsabilità complesse. Tutti
sappiamo, per esempio, che, da quest’anno, gli esiti della
contrattazione di istituto vengono delegati, per la loro gestione, al
superiore Ministero stesso. Insomma, le “parti” contrattano e decidono
localmente. L’applicazione di ciò che contrattano viene rimandata a
Roma.
Gli esiti sono certamente i medesimi (a parte il sacrificio di
flessibilità di cassa degli Istituti). Ma il “vulnus” anche simbolico
all’autonomia mi pare evidente. Non ho sentito un neppur flebile
lamento da parte sindacale. (Semmai sollievo per l’alleggerirsi
relativo dei compiti di segreteria)
Non faccio il sindacalista (da tempo) e neppure sono membro di una
associazione professionale della scuola. Ma credo che, in una fase di
“stretta” delle risorse, comunque la si governi, o “alla Tremonti” o
“alla opposizione” (!?), sia triste strategia quella di “concordare gli
arretramenti” progressivi ed ineliminabili (scuola contro pensioni?
pensioni contro occupazione giovanile? Giovani contro tickets sanitari?
Muri di Pompei contro prezzo del cinematografo?….).
Bisogna sparigliare le carte, e saperlo fare. Rilanciare cambiando il
gioco.
Per esempio: massimo rigore nella ricerca del risparmio scambiato con
massima dilatazione delle potenzialità dell’autonomia. Uno scambio
possibile. Ma questo è, con tutta evidenza, un problema “squisitamente”
politico. (Di Franco De Anna da ScuolaOggi)
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