La
notizia del pensionamento dapprima arriva a intermittenza, con varie
smentite da parte del Provveditorato, così ancora chiamiamo i CSA, poi
se ne ha certezza. Significa che
insegno in una graduatoria con esubero di docenti e che pertanto per me
si applica la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro – una
sorta di licenziamento – senza diritto a differimento al fine di
maturare il requisito che consenta l’accesso all’ultimo scatto
stipendiale (che avrei maturato a Dicembre di questo stesso 2011).
Con solerzia degna di più nobile
causa il Ministero considera che arriverò al 31 Agosto a quarant’anni
di anzianità contributiva e decreta il mio pensionamento a decorrere
del primo Settembre 2011 stabilendo
così una palese disparità di trattamento tra insegnanti che
hanno diritto alla permanenza in servizio (lavorano su graduatorie e
non in esubero) ed altri che risultano come me “esuberati”
(graduatoria di lettere al liceo).
L’ esubero sbandierato mi
appare così il frutto avvelenato della riforma della scuola secondaria
superiore alla sua “prova d’ingresso”, un modo “tecnico” per nascondere
l’enormità dei tagli che la scuola pubblica italiana ha subito e
continuerà negli anni a venire a sopportare.
Devo andare in pensione prima
di avere maturato l’intera carriera retributiva. Un danno economico e
una beffa, ma soprattutto una mortificazione professionale.
I quasi quarant’anni di carriera contributiva sono frutto anche del
riscatto della carriera universitaria fatto a tempo debito. Quindi pago
all’inizio per il riscatto della carriera e vengo a perdere ora alla
fine. Ma non è tutto, è la questione dell’esubero artificialmente
creato che mi brucia, l’essere messa alla porta quando avrei avuto per
legge ancora la possibilità di alcuni anni di insegnamento, e la voglia
di farlo. Diciamolo, insegnare mi piace e credo di saperlo fare. La
prospettiva di un esaurimento della mia professionalità, così si è
espresso il giudice del lavoro in qualche caso analogo al mio, mi
sembra davvero umiliante.
E’ vero appartengo alla tanto discussa generazione degli insegnanti
laureati nella temperie del sessantotto; ma i denigratori non sanno
(per ignoranza) che questa generazione frequentò un’università seria
con maestri di valore. Qui a Catania
per esempio alla Facoltà di Lettere si studiava con Carlo Muscetta,
Gastone Manacorda, Nicola Mineo, Giuseppe Giarrizzo e tanti altri
ancora. Studiosi di fama internazionale di grande impegno e
puntualità anche nell’insegnamento. Ricordo padre Corallo, un salesiano
di notevole preparazione e disponibilità che insegnava pedagogia; fu il
mio correlatore, relatore Mineo. Ammessa alla compilazione della tesi
di letteratura italiana dopo aver superato la prova scritta di
ammissione, come richiesto da Muscetta. Altro che università facile!
Poi il corso abilitante e finalmente il concorso; una prova su scala
nazionale con seicentomila domande su ventitremila posti che vide
convergere su Roma masse di giovani laureati. Fui ammessa agli orali
con pieni voti. La partenza per l’esame finale nella sede di viale
Trastevere del Ministero della (allora ) Pubblica istruzione,
appesantiti da grandi valigie piene di libri: bisognava infatti portare
i classici, esibirli in sede d’esame e naturalmente dimostrare di
conoscerli. Passai con il massimo dei
voti e mi classificai al settantacinquesimo posto nella graduatoria
nazionale di merito; davanti a me erano solo quelli che avevano
maturato punteggi nel servizio o con altri titoli oltre il concorso. La
celata soddisfazione di mio padre: hai fatto il tuo dovere. Poi la
scelta della sede. Andava bene Acireale, più vicina a Catania; e poi un
Istituto tecnico. “Ma come, tu con questo punteggio e con i tuoi studi
non scegli il liceo?” Eravamo appunto sessantottini e pensavano a una
scuola che offrisse opportunità non solo ai ceti privilegiati (scuola
di qualità e di massa era il nostro progetto) e gli Istituti tecnici
consentivano meglio il dialogo con fasce sociali nuove. La scelta di
Acireale fu poi particolarmente felice, era una bella scuola con molti
bravi colleghi e con un preside sensibile e accogliente. Lo ricordo con
gratitudine. Ebbi anche l’occasione di seguire alcune classi
dall’inizio alla fine per tutto il quinquennio, un’esperienza formativa
importante per me e per gli alunni.
Quando potei chiedere il trasferimento a Catania andai al Gemmellaro,
un altro Istituto tecnico, ma con problemi molto più complicati. Questa
antica e prestigiosa scuola catanese si trova infatti in uno dei
quartieri difficili della città. Lì negli anni ottanta e novanta si
poté misurare la grande difficoltà della scuola di fronte ai processi
di trasformazione sociale. L’Istituto era frequentato da ceti sociali
che per la prima volta avevano accesso all’istruzione superiore, una
grande occasione di democrazia alla quale le strutture scolastiche si
presentavano impreparate. Spesso infatti i ragazzi arrivavano con
scarse capacità di espressione in italiano, un retaggio delle loro
storie famigliari a cui la scuola avrebbe dovuto rispondere con
massicce dosi di corsi di scrittura e di lettura. Al Gemmellaro si
misurava anche la trasformazione sociale da un altro punto di vista:
molti ragazzi vivevano in ambiti famigliari poco coesi, in cui la fine
di una tradizionale autorità genitoriale non aveva trovato un
sostitutivo. C’era di tutto, dal
bullismo alla spicciola maleducazione talvolta sostenuta da genitori
che ovviavano alla scarsa autorevolezza facendosi difensori ad oltranza
delle prodezze dei loro figli. Talvolta invece il ruolo genitoriale
veniva “supplito” da fidanzati, che avrebbero voluto ottenere
dall’insegnante rassicurazioni sul comportamento della fidanzata a
scuola, ma non riguardo al profitto scolastico di cui non gli importava
nulla, ma alla fedeltà chiedendo magari un supplemento di controllo.
Era ogni giorno una lotta, resa ancora più difficile dalla scarsa
considerazione sociale di cui gli insegnanti cominciavano a godere in
quegli anni; se ne percepiva subito il senso nelle obiezioni di alcuni
alunni e genitori: “ma lei che mi rappresenta con questo stipendio!” Le
occasioni di facile arricchimento non passavano certo per le aule
scolastiche. Eppure al Gemmellaro
c’erano dei colleghi bravissimi, la generazione entrata con i concorsi;
molti di loro erano lì perché avevano condiviso quella scelta degli
Istituti tecnici o professionali. Alla fine degli anni novanta ci fu
una diaspora, pensionamenti e trasferimenti, per cui presi la decisione
di chiedere anch’io il trasferimento in un’altra sede. Fu il liceo scientifico Boggio
Lera.
Un grande edificio antico posto nel centro storico della città con una
utenza mista tipica della popolazione dei centri storici con in più
molti immigrati. Pertanto senza velleità di scuola d’élite. Andava bene
per me. Alle velleità supplisce la
qualità del suo corpo insegnante, la sua organizzazione, l’apertura
verso la città. Sono tornata dopo tanti anni lì dove avevo
cominciato da supplente e dove avevo sperimentato la fatica e insieme
la bellezza del lavoro di insegnante. Reggere il confronto con
quell’entusiasmo, con quella me stessa di allora è stata una sfida
difficile. E credo riuscita. Così come rinsaldare legami antichi e
crearne di nuovi a partire da idee, gusti, preferenze, scelte, in un
concreto e quotidiano fare scuola. Giorno
dopo giorno fino alla non scelta del forzoso collocamento a riposo.
P. S. Anche
se sono convinta che il rispetto dei diritti soggettivi sia condizione
della democrazia, avrei capito che mi fosse stato richiesto di
sacrificare qualcosa per costruire un nuovo patto generazionale,
garanzia di futuro.
La scuola
dei tagli e degli esuberi non va certo in questa direzione.
Donata Bellante
redazione@aetnanet.org