Non è stato solo
il Terzo Reich a proclamarsi e a credersi destinato a durare mille
anni, anche se è durato solo dodici, meno del mio scaldabagno. Ogni
potere, soprattutto ma non solo quello totalitario, ogni civiltà, ogni
sistema di valori e di costumi si vogliono e si ritengono definitivi;
siamo inclini a scambiare il presente, l’assetto delle cose che ci
circondano, per l’eterno, qualcosa che non può cambiare. In questo
senso, siamo quasi tutti ciechi conservatori, incapaci di credere che
il nostro mondo—la politica, le gerarchie sociali, gli usi, le regole —
possa mutare. Se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il
muro di Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo
sognatore. Forse chi ha il senso religioso dell’eterno è più protetto
dalla supina adorazione idolatrica di quel momento di tempo in cui vive
e delle momentanee ed effimere forze che in quel momento appaiono
vittoriose e
insostituibili.
Le cose invece cambiano, i muri cadono, ma l’idolatria del
momento, che impone di essere «al passo dei tempi», permane,
profondamente radicata nel cuore e nella mente. Caduto il muro di
Berlino che pareva eterno e con esso tutto il sistema comunista, uno
studioso si è affannato a enunciare, con una celebre frase poco
intelligente, che «la storia è finita» e dunque che il mondo sorto dal
crollo del comunismo era quello definitivo, destinato a durare — con il
suo meccanismo politico, le sue strutture economiche, il suo stile di
vita — per sempre. Semmai è vero il contrario; quel muro congelava o
cercava di congelare la storia, che invece oggi è vertiginosamente
instabile, imprevedibile e mutevole.
Sono soprattutto le dittature — quelle «molli» che soggiogano con
strumenti economici, mediatici e culturali, e ancor più quelle «dure»
che s’impongono direttamente con la forza bruta — che si presentano
come l’unico sistema, l’unica realtà possibile. Le dittature invece
cadono e il 25 aprile ricorda la caduta di quella fascista in Italia.
C’è poco da aggiungere a quanto è stato detto tante volte
sull’antifascismo e sulla Resistenza, sull’imperituro significato di
quest’ultima quale liberazione nazionale, sulle sue contraddizioni,
sulle sue diverse e contrastanti anime, sui suoi eroismi e sui misfatti
compiuti in suo nome. Il 25 aprile simboleggia vent’anni di un’altra
Italia, differente da quella del regime fascista; una resistenza che
non è solo quella partigiana, ma anche quella di coloro che non si sono
piegati quando un’altra Italia sembrava impossibile; di coloro che si
sono opposti nettamente e clamorosamente, nella lotta clandestina, ma
anche di chi, più modestamente, ha cercato di salvare il salvabile di
dignità e ragionevolezza, senza eroismi ma con la capacità di non
lasciarsi abbagliare dall’ «aria del tempo», di respingere la
tentazione di «marciare con la Storia», di preservare
quell’intelligenza critica che non si lascia sedurre dai belati del
gregge, neanche quando sembrano ruggiti di leoni.
Ogni resistenza ha una componente pasquale, di resurrezione; è un
risorgere dalla morte, da quella falsa vita che si spaccia per
immutabile e definitiva ossia finita e dunque morta.
Anche oggi, dinanzi al dilagare di confusione, volgarità, prepotenza,
corruzione, sconcezza che sommerge il Bel Paese come liquami che
salgano dalle fognature, è forte la tentazione di arrendersi, di
lasciarsi andare, di credere che l’andazzo disgustoso sia uno stadio
ultimo, che una vera mutazione antropologica abbia creato un nuovo tipo
d’uomo, un non-cittadino, e che questa specie, nella selezione
darwiniana, sia fatalmente dominante. L’indifferenza che mette in
soffitta la Resistenza vera e propria e l’attentato alla Costituzione,
che da essa è nata e che è la spina dorsale dell’Italia civile, sono un
sintomo fra i tanti di questa involuzione morale. Ma proprio quella
data insegna a non scoraggiarsi; ricorda come credere che tutto sia
perduto e che non si possa più reagire sia una tentazione, stupida come
lo sono in genere le tentazioni. C’è un’altra Italia possibile,
rispetto a quella che oggi subiamo. Non è il caso di fare inchini al
mondo così com’è e come esso pretende, anche perché, se proprio si è
costretti a farlo, ci si può inchinare come Bertoldo, che si piegava
davanti ai potenti, ma voltandosi dall’altra parte. (da
http://www.corriere.it/ di Claudio Magris)
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