La
legge 1905 Gelmini ci chiede (impone?) di ripensare l'università e,
nelle università, alcuni si preparano alla resistenza ad oltranza,
altri invece stanno studiando il testo uscito dal Senato per gli atti
conseguenti.
Tuttavia, la vera partita si gioca su altri campi. A mio avviso, se la
legge 1905 sarà, come sostengono alcuni, l'eutanasia di un sistema
moribondo, oppure, come sostengono altri, l'iniezione di vitalità che
tornerà a far correre la vecchia signora, o qualcosa d'intermedio,
dipenderà da due fattori indipendenti: uno ovvio, i finanziamenti, e
uno meno ovvio, i tempi.
Servono le risorse per i concorsi di seconda fascia e serve il fondo
per il merito per gli studenti e servono risorse per il fondo sanitario
nazionale, per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica
e per il fondo premiale degli atenei.
L'obiettivo deve essere prossimo, molto prossimo, altrimenti si verrà a
creare un vuoto di passaggio nel quale potrebbero sì precipitare
tantissime istanze di giovani capaci e svanire definitivamente le
aspettative dei ricercatori più motivati. Un "brain waste" che questo
paese non può tollerare oltre.
L'altro fattore è il tempo. Mi riferisco alle numerose scadenze
previste dalla legge, all'avvio delle procedure d'idoneità da associato
o da ordinario (entro 90 giorni dalla data di emanazione), alle
certezze sull'erogazione dei finanziamenti, alla revisione dei settori
scientifico disciplinari (attualmente più di 370) indispensabile per
snellire le procedure di reclutamento e le idoneità.
Il fattore tempo è anche cruciale sul fronte dell'accesso alle carriere
e qui c'è molto da fare anche per le università. Non solo abbiamo da
risolvere uno spaventoso problema "transitorio" rappresentato dalle
migliaia di "ricercatori fantasma" che già operano nei nostri atenei,
ma dobbiamo anche prevenire il formarsi di nuovo precariato.
Precari non si nasce, precari si diventa se il ricercatore in
formazione non si muove e se "invecchia" sul posto. La legge 1905
stabilisce un tempo massimo di 10 anni per la permanenza in posizioni
di tempo determinato. Dieci anni sono tanti, ma sono sicuramente troppi
se si esce dal percorso formativo (laurea triennale, magistrale e
dottorato) già troppo vecchi. La legge si basa sul presupposto che
l'aspirante accademico "tipo" abbia (tranne forse che a medicina) 27/28
anni, non 30/31 o oltre, a cui aggiungere un paio d'anni di postdoc,
oppure un contratto da ricercatore a tempo determinato, per poi
decidere se puntare a un contratto di "tipo tenure", magari in altra
sede, e quindi all'idoneità da professore. In altri paesi funziona
abbastanza, ma da noi? Se le cadenze della formazione prima, e la
burocrazia dei concorsi e delle idoneità poi, non si adeguano
all'obiettivo da raggiungere, la "tenure track" continuerà a essere una
mera gara di sopravvivenza e non otterrà lo scopo di selezionare i
migliori e più motivati.
Giusto infine far dipendere l'erogazione di risorse "premiali" dalla
valutazione. È quindi indispensabile che l'Anvur, l'agenzia nazionale
di valutazione del sistema universitario, parta e divenga rapidamente
operativa.
Agli atenei la legge impone tempi stretti per adeguare gli statuti,
pena il commissariamento. Sarebbe auspicabile che altrettanta fermezza
venisse applicata all'avvio delle procedure di valutazione degli atenei
e alle scadenze che riguardano le erogazioni di finanziamenti e l'avvio
dei concorsi.
Tempi certi, valutazione tempestiva e affidabile, e risorse certe
consentono la programmazione e sgonfiano le tensioni da perpetua
"ultima spiaggia".
L'autore è prorettore dell'Università di Bologna
(di Dario Braga da IlSole24Ore)
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