In nome
dell’autarchia linguistica, arriva da Pechino il divieto di utilizzare
l’inglese nei media cinesi. Lo ha annunciato l'amministrazione generale
per la stampa e le pubblicazioni (Gapp), l' ente governativo preposto
al controllo del settore, mediante una direttiva emanata lunedì e
pubblicata oggi dai giornali.
In particolare, il dictat di Pechino bandisce le parole straniere in
pubblicazioni scritte in cinese e tutti quei neologismi “dal
significato poco chiaro” e prevede “sanzioni amministrative”,
dall’ammontare pecuniario peraltro non specificato, per quanti
contravverranno allo stesso.
Il provvedimento avrebbe lo scopo di preservare la «purezza» della
lingua dei mandarini, contrastando il dilagante utilizzo di termini e
sigle mutuati dall’idioma d’Oltremanica, che – sempre secondo l’ente
“distrugge uno sviluppo linguistico e culturale sano e armonioso, ed
esercita un influsso negativo sulla società”.
In effetti l’'uso degli inglesismi è una vera e propria realtà
nel contesto mediatico cinese che utilizza quotidianamente acronimi
inglesi come Nba per indicare la Lega americana di basket, o il Pil per
il prodotto interno lordo.
La risultante ibrida, data dalla commistione linguistica tra
inglese e cinese – “chinglish” lo chiamano – è attualmente sulla
“bocca” di tutti e, utilizzato regolarmente nei “microblog” – surrogati
cinesi di Twitter, attualmente vietato in Cina - ha finito per
influenzare non solo l’espressione orale ma anche quella scritta. Le
parole straniere, chiarisce l’Amministrazione generale della stampa e
le pubblicazioni, potranno essere utilizzate in casi eccezionali,
quindi solo “se necessario”, salvo fornirne un’adeguata traduzione o
spiegazione in cinese.
Di fatto, considerata l’ampia diffusione dell’inglese nelle
scuole come nei luoghi pubblici e infine nei media, e stando al
sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano China Youth Daily dal quale
risulta che la maggioranza della popolazione è più impegnata a studiare
l'inglese che il cinese, la crociata a favore della salvaguardia della
lingua madre “non avrebbe ragione di sussistere”, spiega un editore
citato dal quotidiano China Daily.
Storce il naso anche un professore dell'Università di lingue di
Pechino, Dong Sheran che, citato dal quotidiano Global Times, ha
affermato: «Viviamo in un mondo nel quale le parole nuove arrivano così
in fretta che non si fa a tempo tradurle... la comunicazione globale
non è un linguaggio chiuso alle parole straniere”.
FEDERICA MATTEUCCI (http://www.agenziaradicale.com)
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