Ci sono due
categorie di docenti irriducibili: gli intuitivi e gli oggettivisti.
Per i primi la valutazione è un sentimento. Gli oggettivisti sono
invece convinti che la valutazione deve essere oggettiva:
interrogazioni e prove. Estratto da un racconto di Dario Missaglia
contenuto nel libro “Educo Ergo sum”, edito da Ediesse.
(Educationpuntozero)
Redazione
Le aule ora sono deserte, quasi tristi. I banchi e le sedie tornano
oggetti anonimi. Ma nei corridoi iniziano ad affluire i docenti. Ora
tocca a loro, inizia lo scrutinio finale. La scuola vive così il suo
momento della “giustizia” perché studenti e genitori, a loro volta,
valuteranno quei voti e si faranno un’idea di che cosa intende per
“giustizia” quella scuola. Ma il Consiglio è un gruppo apparente. Un
gruppo composto in primo luogo non da persone ma da “materie” in cui
ciascuna rivendica la propria indispensabilità e autarchia.
Poi ci sono due categorie di docenti irriducibili: gli intuitivi e gli
oggettivisti. Per i primi la valutazione è un sentimento: loro
“percepiscono” che quell’alunno proprio non va; non ce la fa, non ha i
requisiti per proseguire. Oppure sono convinti che quell’alunno sia un
genio anche se finora inespresso. Gli oggettivisti sono invece convinti
che la valutazione deve essere oggettiva: interrogazioni e prove; che
c’entra la storia di un adolescente con i suoi problemi, le sue crisi,
i suoi alti e bassi, i suoi amori, i suoi entusiasmi?
C’è qualcosa di vero in queste due categorie di persone: la dimensione
soggettiva della valutazione che è ineliminabile. Ma non per questo la
valutazione è condannata al fallimento. Basterebbe rendersi conto che
può esistere la valutazione attendibile.
Troppo difficile? Non credo. Se non ci soccorre, e sarebbe grave, una
buona cultura sulla valutazione, basterebbe ricordare sufficientemente
la nostra esperienza di studenti, ed è incredibile come in molti
docenti tutto ciò sia scomparso, rimosso, lasciando il posto a una
ottusa volontà di regolare i conti. Ma con chi?
Se il ritorno al voto decimale ha prodotto una crescita delle
bocciature, vuol dire che in questi anni si è radicata una nuova forma
di darwinismo brutale, incolto ma potente, che un patrimonio culturale
che aveva alimentato gli studi sul ruolo del condizionamento sociale
sui processi di apprendimento e di selezione scolastica, è stato eroso.
E, in questo deserto, è probabile che una parte degli insegnanti abbia
visto nel ritorno al voto decimale una sorta di restituzione,
finalmente, del potere dei docenti. Il potere di dare il voto, la
sentenza. Qualcuno forse si sentirà più autorevole di ieri.
Nella classe terza dell’istituto professionale per l’industria e
l’artigianato, il consiglio è presieduto dalla dirigente scolastica. Il
brogliaccio di ingresso è denso di voti bassissimi. Quando la preside
avvia i lavori, Monica, professoressa di lettere, annuncia di voler far
mettere a verbale una sua dichiarazione: “Dichiaro di non riconoscermi
in alcun modo nel quadro generale di valutazione che qui è stato
presentato”.
Il professore Pizzetti, di inglese, interviene turbato: “Certo, sono
insufficienze gravi, ma questi ragazzi non ne vogliono sapere di
studiare, non sanno neppure il verbo essere dopo quattro mesi di
scuola”.
“IL verbo essere…” esclama Monica “ma ti rendi conto? Certo che i
nostri ragazzi non hanno grandi motivazioni allo studio; forse proprio
per questo hanno scelto il professionale. Non hanno voglia di studiare?
E che vuol dire? Lei da adolescente aveva voglia di studiare? Io no. Ho
avuto la fortuna di un padre colto, appassionato di letture, che mi ha
comunicato questa passione che ho poi ritrovato in alcuni professori
della mia scuola. Ma allora che cosa rimproveriamo a questi ragazzi: di
non aver avuto genitori colti e capaci di appassionarli? Di non aver
incontrato maestri e professori in grado di incuriosirli? Queste non
sono loro colpe, sono nostre e in questa scuola le avalliamo e le
rendiamo quasi naturali, fisiologiche: c’è chi nasce per studiare e chi
per lavorare”.
“Proprio così Monica” interrompe il professor Boni, tecnico di
laboratorio. “È vero, sono segnati dalla vita che hanno, che ci
possiamo fare?”.
“Provare, caro Boni, ci dobbiamo provare, e tu potresti svolgere un
ruolo molto importante. Li ho visti i nostri ragazzi in laboratorio.
Sembrano altre persone. Sono attenti, seguono le spiegazioni, lavorano
al pezzo e leggi la soddisfazione sul loro volto quando il compito è
riuscito. Non ci dice niente tutto questo?”.
Gli sguardi degli altri professori rivelano diffidenza e curiosità.
“Tutto ciò ci dice che non c’è un solo modo di imparare; che
l’interesse allo studio, quando non è dato dalle esperienze scolastiche
precedenti o dalla vita familiare, può nascere attorno a ciò che
concretamente stiamo facendo. Ma allora quell’interesse per la
macchina, per l’oggetto, perché non diventa la chiave per un percorso
di apprendimento dove ci inseriamo la comunicazione, la lettura,
l’interpretazione, l’inglese, la storia? Non è difficile. Ad
esempio...”.
“Va bene signori, scusate, ma si sono fatte le 20.30 e non si può
proseguire. Riceverete l’avviso di nuova convocazione del Consiglio per
i prossimi giorni”. Soggiunge la preside nel sollievo generale.