Occorre
invece fare chiarezza. Il 17 gennaio è stata resa nota una bozza del decreto che
dovrà disegnare la fisionomia della nuova scuola
secondaria. È stata accolta da una bordata di fischi, anche da parte delle forze
che hanno sempre appoggiato l’opera di riforma dell’attuale ministro. Ultime in
ordine di tempo: l’8 febbraio il dipartimento scuola di Forza Italia, il 9 il
coordinamento degli assessori regionali all’istruzione capitanato dalla
Lombardia, il 10 il responsabile della scuola di Confindustria su Il sole 24
ore. Unanimi le critiche: contro l’eccessiva licealizzazione, la fine degli
istituti tecnici, la rigidità dell’impianto degli stessi licei. Di fronte a
tanta ostilità il ministro ha fatto marcia indietro, e ha dato ordine ai suoi
tecnici di riscrivere il documento. Noi abbiamo sempre sostenuto, e lo
ribadiamo, che il sistema educativo unico e articolato in due filoni , vera
novità della riforma, debba essere mantenuto come premessa fondamentale che
rende la “Moratti” diversa dalla tentata e non attuata riforma “Berlinguer”. Il
passaggio di tutta l’istruzione ai licei, che qualcuno continua a vagheggiare,
non avrebbe dunque ragion d’essere, se non nella prospettiva di un ritorno
indietro. Tale passaggio, inoltre, è, come sappiamo, reso impossibile dalla
nuova Costituzione, modificata nel suo Titolo V, che assegna allo Stato le norme
generali sulla istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), mentre
alle Regioni resta la competenza esclusiva in materia di istruzione e formazione
professionale. Punto. Da qui in poi il compito del governo centrale in merito
alla scuola superiore è quello di disegnare, mediante il decreto applicativo,
due sistemi diversi e di pari dignità. Ora, la riscrittura del decreto può
significare due cose, entrambe auspicabili. Primo, limitare il decreto alla
definizione dei percorsi ( l’uno propedeutico all’università, l’altro alla
professionalità) e dei LEP, eliminando le norme che si riferiscono alla gestione
delle istituzioni che li erogano. In parole povere: indicare le caratteristiche
dei percorsi liceali e di istruzione e formazione professionale, lasciando le
decisioni sull’eventuale passaggio alle Regioni di istituti tecnici e
professionali alle leggi che dovranno regolamentare il trasferimento dell’intero
sistema di istruzione, elementari e licei classici compresi, in attuazione del
titolo V della Costituzione. Secondo, riscrivere i profili dei licei secondo i
criteri di flessibilità già utilizzati per le scuole medie (monte ore annuale
con indicazione di un minimo e un massimo, uno zoccolo duro di materie comuni e
un’ampia area di scelta per le scuole e gli studenti, con riduzione del numero
di materie complessive). L’obiettivo è una norma che non tocchi la gestione
delle scuole e permetta a ciascuna di aprire i corsi più adeguati alla sua
vocazione e alle necessità del territorio (un ITIS ad esempio – ma anche un
IPSIA, o un liceo - potrebbe avere un percorso di liceo tecnologico secondo le
norme dettate dallo Stato e un percorso di istruzione e formazione secondo
quelle dettate dalle Regioni, rimanendo un Istituti tecnico statale). Quindi è
inutile scagliarsi contro un decreto che è ancora in fieri; inoltre, la posta in
palio è molto diversa da quella sventolata. Al posto del tanto paventato:
“passeremo alle regioni?” meglio allora il più rassicurante quesito: “avremo
finalmente un sistema flessibile, capace di orientare e seguire i ragazzi,
all’interno di una data filiera, da un percorso a un altro più adeguato allo
sviluppo delle sue capacità?” Chi confonde le acque lo fa perché vuole che,
ancora una volta, nulla cambi.