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Umanistiche: APPUNTI SU MITO E POESIA IN CESARE PAVESE

Rassegna stampa

 "Da tempo immemorabile i contadini d'ogni parte d'Europa hanno usato accendere i falò, i cosiddetti fuochi di gioia, in certi giorni dell'anno, ballarvi intorno e saltarvi sopra...Non è raro che in questi fuochi si ardano dei fantocci o che si finga di ardervi una persona viva; e c'è ragione di credere che anticamente vi fossero davvero bruciati degli esseri umani" Così scriveva James Frazer, il cui monumentale saggio" Il ramo d'oro"  fu una delle letture più importanti per il Pavese studioso di etnoantropologia.

Il ritorno alle origini, la riscoperta di un passato che pareva dimenticato sono il fulcro dell’ultimo e più importante romanzo di Cesare Pavese La luna e i falò scritto fra il settembre ed il novembre del 1949 e pubblicato nell’aprile del 1950, quattro mesi prima che l'autore si suicidasse. Il protagonista è Anguilla, un orfano, un “bastardo” cresciuto nelle Langhe, che ritorna nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza dopo aver fatto fortuna al di là dell’oceano, in un mondo che pare lontanissimo: l’America.
(Da Italia Libri M.Allo)


Il romanzo viaggia su due piani paralleli. Uno legato al passato, con un percorso della memoria articolato in estesi flash-back attraverso i quali il protagonista rivive gli anni passati come servitore di campagna alla “Mora”. L’altro piano corre invece lungo i binari del presente, tempo nel quale l’Anguilla uomo ritrova l’amico-maestro di un tempo, Nuto, e rivede sé stesso nella figura del giovane Cinto. Le campagne e le Langhe in particolare, sono terre di miseria, nelle quali un orfano viene preso in casa per avere le cinque lire di sovvenzione e due braccia in più da usare nei campi. Le Langhe sono di frequente una vita di stenti che spesso si sfoga nella rabbia e sfocia nella follia. Una follia che nasce dalla miseria, una rabbia per una vita senza sfogo. Il personaggio che incarna tutto questo è Valino, il padre di Cinto, che distrugge tutto il suo mondo in una sola notte.

Ma il capolavoro di Pavese non è solo questo. È anche la riflessione politica appena accennata, ma ugualmente profonda di un personaggio fondamentale quale è Nuto. In un paese diviso, dove i morti continuano a riaffiorare dalla terra e ad alimentare l’odio egli è il marxista del villaggio, che conosce le ingiustizie, ma vede le difficoltà e le ragioni di ogni parte, che riflette con lucidità sulla situazione del dopoguerra, ma allo stesso tempo crede nel potere della luna e nelle capacità magiche dei falò accesi nella notte di San Giovanni di risvegliare le campagne.

In un passato dominato dalla guerra civile il futuro, come sottolineato da Franco Fortini, è di Cinto, l’orfano zoppo che abita nella casa dove il protagonista è cresciuto e nel quale il protagonista si rivede. Il futuro è suo nonostante l’essere storpio gli impedirà di uscire dalle Langhe e quindi di conoscere il mondo. Il futuro è suo perché Cinto appartiene alla prima generazione che non dovrà fare i conti con la guerra e soprattutto con il dopoguerra. Il futuro è suo perché non potrà essere che così, altrimenti anche la speranza non avrebbe più senso.

Nella seconda parte emergono ulteriori elementi. Questa sezione del romanzo è dominata dal ricordo dell’adolescenza di Anguilla, e potremmo intitolarlo il romanzo della “Mora”. La scena è occupata per buona parte dalla figlie del padrone, Irene, Silvia e Santina. Tutte e tre spinte dalla voglia di evadere dalla campagna, di essere accettate al di fuori della Mora. Mentre il giovane Anguilla le vede come esseri superiori, l’autore le dipinge in tutta la loro fragilità, nelle ambizioni e nelle speranze di giovani ragazze di campagna spezzate dalla vita e da un mondo che fuori della Mora non è così accomodante come poteva sembrare.

Il romanzo di Pavese vive sul piano narrativo attraverso accelerazioni e frenate. Ampie riflessioni vengono spesso concluse con un periodo che chiude il capitolo ed imprime una svolta importante all’intreccio. La narrazione procede, dunque, secca e tagliente, in maniera quasi impietosa nei confronti delle sorti dei protagonisti. Come già detto, il paesaggio domina. Nell’oscillazione tra presente e passato è proprio il paesaggio a rimanere costante. Nei falò, nelle fasi lunari, nelle stagioni che si ripetono si rivela l’immutabilità della terra. Di una terra particolare, le Langhe. Le Langhe, sono colline di profumi e di gusti forti, di terra a tratti nera e a tratti bianca. Di colline che non finiscono. Terra dove «lavorare stanca». Terra di grande guerra civile e di grandi scrittori ed intellettuali. Un mondo che agli occhi del protagonista sembra stia per finire sotto i colpi di una modernità difficile da decifrare, ma che appare molto pericolosa già ad una prima e fugace impressione.

L’incendio di Gaminella è un simbolo di tutto questo. Di un mondo che viene perduto in un istante e che ritroviamo sepolto sotto uno strato di cenere e fatto esso stesso cenere. Materia nera come la terra, ma impalpabile ed esposta al vento che la disperderà. I falò che prima costituivano il sogno estivo con il quale la gente delle Langhe si affratellava diventa così un incendio indomabile che distrugge questa flebile parentela che si stabiliva una volta l’anno, per una sola notte tra i langaroli. È dunque la stessa solidarietà contadina che brucia nel rogo di Gaminella. Proprio quella solidarietà che Anguilla rimpiangeva da tanti anni e che non aveva trovato nelle città della California e nel deserto del Nuovo Messico. Solidarietà che lo porta a voler conoscere e seguire il piccolo Cinto. Zoppo nella realtà come il protagonista era zoppo a causa del suo essere trovatello, anzi “bastardo”. Quella zoppia morale, che lo faceva guardare dagli altri con compassione e diffidenza, lo aveva fatto avvicinare a Nuto, il suo maestro, la guida e l’esempio.

Oltre al paesaggio, ne La luna e i falò un ruolo fondamentale è ricoperto dalla memoria. Nel suo ultimo romanzo Pavese inserisce elementi autobiografici in maniera, se possibile, maggiore rispetto alle opere precedenti. Oltre alla dimensione narrativa, il rapporto col passato diventa condizione mentale. Una riscoperta dei luoghi della memoria che investe la psicologia del protagonista e la muta in maniera profonda. I simboli e le figure che riemergono nascondono però una componente negativa. Nel suo ritorno infatti il protagonista si accorgerà che i luoghi dell’infanzia sono, come affermato da Anco Marzio Mutterle, «un paese di morti, saturo soltanto di cose e persone scomparse». Il ricordo ed il ritorno sfociano dunque in una riflessione amara che condiziona non solo il presente ma, in quest’ottica, anche il passato.( a cura di M.Allo da Italia Libri)

In occasione del cinquantesimo anniversario della tragica morte di Cesare Pavese,  Maria Teresa Gavazza presenta un saggio che affronta alcuni dei temi tipici della poetica pavesiana. Eccovi il saggio

Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
Questa riflessione di Calvino mi sembra un incipit conseguente alla rilettura di alcuni testi di Pavese, in particolare de La luna e i falò.
Oggi, quando la cultura del post-moderno può assumere i connotati di una caotica contaminazione di linguaggi, generi e stili, quale senso ha riprendere in mano i suoi scritti?
L’ho sperimentato in questi anni nelle aule scolastiche e l’ho voluto rielaborare, approfittando poi della Biennale di Poesia, sul filo delle contraddizioni della modernità, quelle che il poeta ha subito sulla sua pelle e che ben emergono nell’ultimo romanzo. Mi è servito ad introdurre il tema della memoria, a superare l’appiattimento sul presente basato sul mero consumo di immagini, cui i giovani spesso sono soggiogati, senza per questo cadere nello stereotipo della loro demonizzazione. Ho voluto ridefinire questo senso alla luce di un progetto educativo che andasse nel segno della presa di coscienza delle proprie radici, ma non disdegnasse la creatività e il gioco poetico.
L’Altro e l’Altrove quindi non solo per combattere l’era del realismo consumistico, dove mai l’immaginario è apparso così scarno e vuoto. L’oltranza della poesia, riprendendo il filo conduttore della IX Biennale, occasione per rompere gli schemi precostituiti acquisendo nuove conoscenze, per smascherare le convenienze della cultura ufficiale.
Pavese, quale scandalo per la poesia?
L’andare oltre le chiese, il cattolicesimo anticomunista e il comunismo anticlericale del suo tempo.
Il bianco della luna, il rosso dei falò.
Pavese è stato certamente una figura insolita. Oggi avrebbe rifiutato l’omologazione, ormai quasi globale, insinuatasi anche nei più piccoli luoghi, nei paesi che egli amava molto.
I ragazzi, le donne, il mondo non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, danno il grano all’ammasso, le ragazze fumano – eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato.
La sua radicalità sta nella sua contraddizione: il cambiamento e la fissità, la città e la campagna, la storia e il mito.
Ogni vita è quella che doveva essere.
Troviamo questo conflitto nei Dialoghi con Leucò e nel suo romanzo, un testamento poetico scritto in meno di due mesi, dove più si riflette l’elemento simbolico.Lo scrittore ricorda nel suo diario il contrasto tra la vita reale e ciò che essa sottende, quello che più affascina l’uomo.
La parola che descrive (echeggia) un rito (azione magica) o un fatto dimenticato o misterioso (evocazione)è la sola arte che m’interessa.
In una lettera a Fernanda Pivano esprime la commozione del respirare a S. Stefano Belbo: “Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo.”
Ritroviamo lo scrittore nei piccoli paesi del Monferrato dove scopriamo le sue radici poetiche nel conflitto città/campagna, inteso anche come contrasto tra modernità e tradizione all’interno di comunità spesso destinate al silenzio ed alla scomparsa.
Il processo di simbolizzazione- La stessa macchia di verderame intorno alla spalliera del muro. La stessa pianta di rosmarino sull’angolo della casa. E l’odore, l’odore della casa, della riva, di mele marce, d’erba secca e di rosmarino.- diventa un modo per sottolineare la tragedia di una realtà crudele ed impietosa.
Quante volte, ascoltando i racconti dei vecchi contadini, respiriamo il messaggio poetico, inverato in una festa di paese, nell’ incendio improvviso che distrugge tutti i beni di una famiglia laboriosa o nello scoppio di una violenza assurda tra padre e figlio. La riscoperta della cultura contadina, la ricerca di un’identità in un contesto etno-antropologico, ci permettono di assaporare l’intreccio tra mito e storia.
La poesia è altra cosa, si nutre sì dei suoi miti, ma tende a distruggerli.
Il miracolo dell’infanzia è presto sommerso nella conoscenza del reale e permane soltanto come inconsapevole forma del nostro fantasticare, continuamente disfatta dalla coscienza che ne prendiamo.
Ecco le frasi di Nuto su Cinto, il ragazzo sciancato con la crosta sotto l’occhio: perché deve vivere? Vale la pena?[
Infine l’ultimo riscatto, la sacralità del mito che traspare nell’evocazione e nell’altrove della poesia.
Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché.
La contraddizione più alta è quel confine tra la vita e la morte che ci rende Pavese così moderno e così vivo, la sfida di una creazione che è l’oltre della poesia.
Ma i più forti, i più diabolicamente devoti e consapevoli, fanno ciò che vogliono, sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza. È questo il loro modo di collaborare all’unicità del mito.









Postato il Domenica, 02 marzo 2008 ore 18:41:33 CET di Maria Allo
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