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Umanistiche: ANTONIA POZZI: UN'ANTIGONE MODERNA

Rassegna stampa

 

Parole  (Milano, Garzanti, 1998) raccolte di poesie di Antonia Pozzi


"Mentre le rocce, in alto ,/sui grandi libri rosei del tramonto/ leggono ai boschi e alle case/ le parole della pace" .
"Certe sere vorrei salire / sui campanili della pianura ,/ veder le grandi nuvole rosa / lente sull'orizzonte / come montagne intessute di raggi./vorrei capire dal cenno dei pioppi / dove passa il fiume/ e quale aria trascina".
La morte, mai blandita o invocata, è un altro elemento di questa sensibilità acuta che, stoicamente, può accettarla come segno di supremo decoro:" come le ossa del  falco/ che sul torrione più alto/ regalmente ha voluto/ morire".

 

 

 

Antonia Pozzi è morta suicida il 3 dicembre 1938, a soli ventisei anni. Il rischio, nel parlare della sua poesia, è di considerarla nella luce luttuosa della fine (come per Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, Sylvia Plath o Virginia Woolf), e quindi di vedere la sua opera tutta negativamente proiettata ad anticipare la sua morte.
La passione poetica di Antonia Pozzi, Antigone moderna, sull'orlo del precipizio, perduta nello sforzo di rigenerarsi  e il suo essere donna, erano forse in conflitto con un ambiente culturale e sociale inadatti a riconoscerla pienamente nella sua identità di poetessa.
Scrive Eugenio Borgna in Le intermittenze del cuore, «I diari di Antonia Pozzi si leggono con il batticuore: sono attraversati da una
cascata di emozioni e di riflessioni sconvolgenti e temerarie: ancorate a tematiche esistenziali roventi e attuali ieri come oggi: e dalla loro lettura si esce stupefatti e straziati».
Infatti Parole, il canzoniere di Antonia Pozzi, è uno di quei libri unici e assoluti, come i Canti orfici di Campana o La persuasione e la rettorica di Michelstaedter, rispetto ai quali non c’è un oltre rispetto al suicidio o alla follia, anzi il suicidio e la follia compendiano un’esperienza racchiusa e sigillata nel libro, che ci guarda dalle pagine come un enigma. Antonia Pozzi tendeva alla purezza della parola e il mondo che ci consegna – una sorta di Lake District nordico – è lì interiorizzato nell’alternarsi di stagioni, ombre, piogge, luci, riflessi, nebbie, periferie, presenze e, soprattutto, silenzio. Incanto. Ma soprattutto inquietudine e spaesamento rispetto a ogni certezza rassicurante.
«Molti hanno rimproverato ad Antonia – scrive la Cenni – (lo stesso Banfi, che considera con una certa diffidenza questo lavoro in cui intravede la personalità tormentata dell’allieva) un’identificazione fatale con Emma Bovary. Ma chi coglie davvero la complessità del suo profilo esistenziale, potrà accettarla solo con l’ironica adesione del suo stesso creatore: ’Madame Bovary c’est moi’».
   È ricca, frequenta le migliori scuole, ha viaggiato in mezza Europa per studio o per diporto, ha per amici gli intellettuali più promettenti del tempo. Ma porta in sé la ferita (una mancanza ad essere) che tutta la sua raffinata cultura non riesce a colmare, e il senso di pietas nei confronti di se stessa a poco a poco si riversa sugli altri fino a sentire vibrare la stessa pena nelle persone e nelle cose. In nessun altro canzoniere degli anni circola la ”vita”, la vita degli altri congiunta alla propria, come nel poema di Antonia Pozzi.  Perché? Sarà vero, come scrive Borgna, che vede la sua vita segnata da una patologica malinconia che «se non fosse franata la sua relazione affettiva, Antonia Pozzi avrebbe meglio resistito al fascino della morte volontaria»? O piuttosto, non sarà perché la sua stessa passione poetica, e il suo essere donna, erano in conflitto con un ambiente culturale e sociale inadatti a riconoscerla pienamente nella sua identità di poetessa? M.Allo
Una voce,  quella di Antonia Pozzi , piuttosto  insolita  nella nostra tradizione lirica  .Ecco un saggio ...Da Dossier


UN’ANTIGONE MODERNA

Giunto a questo punto, l’esperienza esistenziale e poetica di Antonia Pozzi continua a guardarmi dalle pagine del suo poema come un enigma lontano dall’essere stato dischiuso. Perché? Sarà vero, come scrive Borgna, che vede la sua vita segnata da una patologica malinconia che «se non fosse franata la sua relazione affettiva, Antonia Pozzi avrebbe meglio resistito al fascino della morte volontaria»? O piuttosto, non sarà perché la sua stessa passione poetica, e il suo essere donna, erano in conflitto con un ambiente culturale e sociale inadatti a riconoscerla pienamente nella sua identità di poetessa? Resistenze che tuttora perdurano, come vediamo dalle antologie e dalle storie letterarie del Novecento. E che d’altra parte poco contano rispetto allo splendore numinoso di questa poesia che ci parla dal fondo di un’epoca alle soglie della guerra e dell’olocausto, da cui non solo i poeti, ma la maggior parte degli intellettuali e dei politici distoglievano lo sguardo per non esserne accecati. Ha ragione la Cenni, nella Prefazione all’ultima edizione di Parole, ad evocare Antigone, la situazione tragica di

«un’Antigone moderna con l’ombra del non finito, con il proprio sogno d’amore non nato e con se stessa bambina sola, con le voci e i fantasmi di un universo sotterraneo e i silenzi d’abisso, nebbie e fosse e croci».

Come ha scritto Heidegger nella sua analisi di un coro dell’Antigone di Sofocle, riprendendo un termine che era già stato esplorato da Freud,

«noi concepiamo l’in-quietante (das Unheimliche) come quello che estromette dalla ‘tranquillità’, ovverosia dal nostro elemento, dall’abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa»

Antonia Pozzi è, come Antigone, das Unheimlichste, la più inquietante, che dopo avere esperito la rinuncia alla propria femminilità diventa aporos (sottratta innanzi tutto all’esperienza della generazione, anti-gone, al figlio non nato) e apolis, cioè, come scrive Adriano Ardovino nel commentare Heidegger, «strappata al consorzio dei viventi, all’abitare la terra/sopra la terra, per essere condotta in luogo deserto, rimessa immediatamente al regno sotterraneo, all’abisso dell’Ade».(in Hegel, Kirkegaard, Hölderlin, Heidegger, Bultmann, Antigone e la filosofia, un seminario a cura di Pietro Montani). Forse per questo il suicidio di Antonia risultò, a parenti ed amici, inatteso e incomprensibile, ed è proprio Vittorio Sereni, in 3 dicembre, ad essersi fatto interprete di un ricordo, carico di sensi di colpa, luttuoso e interminabile:

All’ultimo tumulto dei binari/hai la tua pace, dove la città/in un volo di ponti e di viali/si getta alla campagna/e chi passa non sa/di te come tu non sai/degli echi delle cacce che ti sfiorano./Pace forse è davvero la tua/e gli occhi che noi richiudemmo/per sempre ora riaperti/stupiscono/tu muoia un poco ogni anno/in questo giorno.

 

Da Dossier

m.allo









Postato il Martedì, 29 gennaio 2008 ore 20:12:04 CET di Maria Allo
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