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Umanistiche: Ridere dell’opera / ridere all’opera

Rassegna stampa

Ha fatto il giro del mondo l’uscita di quel buontempone che una sera all’opera, vedendo nel finale la povera protagonista consunta di tubercolosi, sbottava: “Ma perché invece di decidersi a morire passa il tempo a cantare?” Effettivamente, canta Mimì, come cantano Violetta e Leonora, Rodrigo e Riccardo, come canta il Dottor Cajus quando gonfio di gelosia inveisce contro l’odiato Sir Falstaff che gli seduce la moglie. Cantano, invece di parlare, o di gridare, o di sussurrare.

Il nostro buontempone non è il solo a ridere dell’opera. Fin dall’inizio della sua storia l’opera ha fatto ridere fior di intellettuali: il Saint-Evremond, l’avversario del Cardinale Mazarino la definiva “una mistura bizzarra di poesia e musica, dove scrittore e compositore, reciprocamente ostacolati, si danno un gran penare per mettere in piedi uno spettacolo insopportabile”. Quando l’opera apparve sulle scene inglesi, il primo giornale della storia, lo Spectator di Joseph Addison, faceva proprio lo stupore del pubblico: “La gente è sorpresa a udire i capitani cantare i loro comandi e le gentildonne mandare messaggi in musica. Il nostro campagnolo non può trattenersi dal ridere sentendo un innamorato intonare il suo biglietto galante, e addirittura sentir messa in musica l’iscrizione di una lapide”.


Rideva il campagnolo di Addison, proprio come ridono i nostri ragazzi, quando sentono il soprano gorgheggiare “Una voce poco fa” o “Caro nome”. Ma ci sono due modi di ridere, due significati del ridere. Il primo è quando ridiamo all’opera di Rossini o ai film di Mel Brooks, perché capiamo la verve che li anima. Il secondo è quando ridiamo di Rossini, oppure dei costumi di popoli diversi, perché non li capiamo. Quando Addison o i suoi campagnoli ridevano all’opera ciò voleva dire solo una cosa, molto semplice: che all’esperienza di cui ridevano non avevano accesso, ne erano esclusi. Siamo esclusi da qualcosa perché non ne possediamo, nessuno magari ci ha dato, le chiavi di lettura. Non ci vuole gran che per escludere qualcuno da qualcosa. Quando il bambino vede il papà e la mamma ridere – o sbuffare, o infastidirsi o deprecare … - davanti a una scena lirica capitata non si sa come in TV, il bambino interiorizza questo atteggiamento, lo fa proprio. E poi è difficile che lo cambi. Per un insegnante, risalire la china è un’impresa.


Purtroppo l’opera lirica non è lontana solo dai favori del cittadino medio; è anche il genere meno praticato e conosciuto addirittura in quell’istituzione che era nata precipuamente per permettere la vita del teatro lirico: il Conservatorio italiano di musica. Se eccettuiamo gli allievi di canto, la stragrande maggioranza degli altri studenti di Conservatorio hanno oggi uno scarsissimo contatto con l’opera. Ma perché poi far conoscere la lirica ai ragazzi? Probabilmente per la stessa ragione per la quale facciamo leggere ai bambini le poesie di Leopardi o di Quasimodo; o li portiamo a vedere le opere d’arte; o li introduciamo ai concetti scientifici. Un filosofo medioevale diceva che noi “siamo nani sulle spalle di giganti”: siamo quello che siamo, culturalmente, intellettualmente, economicamente, anche affettivamente, grazie al patrimonio di valori allestito, anno dopo anno, secolo dopo secolo, dalle generazioni che ci hanno preceduto.


L’opera lirica è uno di questi valori. I quattro secoli di opera lirica costituiscono uno straordinario repertorio di valori, di messaggi, che la cultura delle generazioni trascorse mette a nostra disposizione. Ogni opera ci parla di noi, della nostra vita, del nostro mondo di emozioni e di convinzioni. Assistere a un’opera, come a una commedia, come a un ciclo di affreschi, vuol dire imparare qualcosa di più e di nuovo sull’umanità, la nostra e quella degli altri. L’opera lo fa in un modo che nessun’altra arte può fare. E in questo sta la sua insostituibilità, il suo non poter essere surrogata da alcun’altra forma. Le altre forme c’insegnano a osservare, c’insegnano a guardare. L’opera c’insegna a sentire, ad ascoltare, noi stessi e gli altri. Imparare ad ascoltare! Sappiamo tutti il bisogno che c’è di recuperare la capacità di ascoltare gli altri, e di ascoltare noi stessi, in questa che ormai si chiama la civiltà dell’immagine. Quanto perdiamo della nostra umanità se perdiamo la capacità di ascoltare?

 











Postato il Venerdì, 26 ottobre 2007 ore 15:40:37 CEST di Agnese Indelicato
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