
Ora, se guardiamo all'Italia in questi giorni, a certe sue malinconiche esternazioni politiche, è fin troppo facile constatare che per qualcuno "i clandestini" sono necessari come l'aria. Se non ci fossero bisognerebbe inventarli; senza i clandestini il risentimento sociale si attenuerebbe, la rabbia e il livore delle guerre tra poveri scemerebbero, si abbasserebbe la soglia di minaccia, di allerta, di attenzione politica, di opportunità elettoralistica. Si porrebbe cioè il nodo di governare un problema sociale e politico per il quale non si è culturalmente attrezzati, che è dunque più utile evocare come spauracchio, non risolvere.
Il metus hostilis, la paura del nemico potenziale (vero o presunto) è, come ben sapevano i Romani, argomento più convincente della tolleranza e del buonsenso. Ed è più comodo esorcizzare un pericolo piuttosto che governare un problema reale. Il "metus clandestinus" è materia ideologica, puro cascame ideologico da riporre nel carnet dell'opportunismo e della demagogia più retriva, dell'incultura e dell'inciviltà politica più smaccate. Ed è deriva e limite di linguaggio, che come Wittgenstein ci ha insegnato, è soprattutto limite del nostro mondo.
"Il clandestino" per qualcuno è ontologicamente indispensabile; nè più né meno come per Robespierre erano necessari, a qualunque costo, i nemici della Repubblica. Li scovava con tale zelo e acrimonia, con tale compiacimento, con tale appassionato trasporto da lasciare basiti gli stessi sanculotti parigini, tanto che una volta qualcuno, in berretto frigio, gli gridò dalla folla: "Cittadino Maximilien, ti dispiacerebbe se non ce ne fossero più?".
Filippo Martorana