Dopo aver letto su queste
stesse pagine l’articolo A proposito di quelle proposte sull’inclusione di
Salvatore Nocera, vicepresidente della FISH (Federazione Italiana per
il Superamento dell’Handicap), che ho il piacere di conoscere e
stimare, sento il "dovere deontologico" di inserirmi nel dibattito
intrapreso in queste settimane da «Superando.it».
Non sarò breve, ma neppure analitico, cercherò comunque di rendere
completa la mia idea con un approccio olistico, partendo dalla
situazione attuale in cui operiamo e, in taluni passaggi, potrà anche
trasparire una certa acredine, semplicemente dettata, però, dal
desiderio di non voler buttare a mare il tutto: se infatti
l’integrazione zoppica, in realtà essa cammina e ha conquistato la sua
autonomia anche grazie all’azione sistemica posta in essere
quotidianamente da tantissimi insegnanti specializzati alias di
sostegno.
Gli obiettivi che mi pongo saranno connessi con domande “aperte” le cui
risposte auspico vengano amplificate sino alla Direzione Generale per
gli Studenti presso il Ministero.
Innanzitutto non mi dilungo su ciò che condivido e che la prassi
quotidiana mi aiuta a valorizzare all’interno della scuola (anche se in
sedi diverse: aula, palestra, laboratorio, lavoro ad personam…), ovvero
collaborare con i colleghi curricolari e compagni dello studente con
disabilità, tramite un’azione congiunta volta a sostenere
l’integrazione scolastica (le modalità operative sono le più variegate,
dal cooperative learning*, alla peer education*, al circle time*,
lavori manuali finalizzati al sostegno del protagonismo apprendimentale
e formativo degli alunni con disabilità, valorizzando l’autonomia e
l’intraprendenza individuale…). In altri termini, condivido pienamente
l’approccio epistemico connesso con l’assioma che «gli attori primi
dell’inclusione scolastica debbano essere i docenti curricolari e i
compagni di classe».
Condivido altresì che la «formazione dei docenti curricolari» e il
«ridotto numero di alunni» siano essenziali per garantire il ben-essere
di tutto il gruppo classe e valorizzare le dinamiche relazionali che si
instaurano non solo fra i docenti (all’interno delle quali l’insegnante
specializzato gioca un ruolo determinate, al fine di tutelare e
garantire un “sano” percorso formativo, grazie alle chiavi di lettura
che egli spesso dà al medesimo fenomeno osservato. Avete un’idea di
quali tensioni si creino fra colleghi, specialmente quando si affronta
l’argomento BES [Bisogni Educativi Speciali, N.d.R.], dietro al quale
si celano esigenze diversissime e precise istanze di giovani persone?),
ma anche fra i docenti e gli alunni e in seno agli alunni stessi (avete
un’idea dell’immenso lavoro che bisogna oggi fare in ambito
emotivo-relazionale con gli alunni?).
E ancora, condivido il fatto che si debba andare oltre il modello
bio-medico individuale che ha determinato la “sanitarizzazione” delle
situazioni degli alunni, ostacolando l’approccio olistico e l’azione
sistemica, secondo il quale le varie risorse istituzionali e umane
dovrebbero cooperare nella co-realizzazione del tanto agognato progetto
di vita. Non è proprio tale approccio, volto ad abilitare il singolo
individuo, che ha ostacolato e ostacola tutt’oggi l’affermarsi del
modello bio-psichico-sociale dell’ICF [la Classificazione
Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute,
definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001, N.d.R.]?
Non è proprio la volontà di “ria-bilitare” il disabile che ha impedito
di usare strumenti psico-pedagogici volti a promuovere il cambiamento
sia dell’articolazione della classe sia del modo di lavorare con gli
studenti? (Sapete quale fatica si deve fare per superare la barriera
del lavorare con tutta la classe e solo in quell’ora, per poter
integrare mediante azioni di sensibilizzazione, recupero e sostegno?…).
Ci sono delle rigidità strutturali che vengono superate con
flessibilità grazie allo sforzo individuale di taluni insegnanti, ma
l’organizzazione non aiuta (sapete la fatica che si fa per articolare
un semplice quadro orario atto a permettere allo studente in situazione
di gravità di partecipare alle varie attività programmabili e
calendarizzabili nelle varie materie?).
E l’elenco sarebbe ancora lungo, nel testimoniare in vivo le energie
profuse dal Gruppo di Lavoro Handicap Operativo (GLHO), per poter
sostenere un’effettiva integrazione nell’incedere quotidiano.
Formazione dei docenti e ripartizione
della retribuzione
L’attuale formazione dei docenti curricolari nell’area della disabilità
(Nota Ministeriale n. 174 del 2013) prevede un percorso di tirocinio
attivo effettuato a scuola pari a 75 ore. Quest’anno, segnalo, mi trovo
a seguire una giovane collega che conseguirà un’abilitazione presso il
Politecnico di Milano e che farà, essendo iniziati tardivamente i TFA
[Tirocini Formativi Attivi, N.d.R.], “ben” 25 ore di tirocinio sul
campo, anziché le 75 previste… È questo il modo con cui il MIUR
preparerà i futuri docenti delle varie materie nell’ambito dei BEI
[Bisogni Educativi Individuali, N.d.R.]? È questa la risposta alle
istanze delle associazioni di avere insegnanti capaci e competenti
nell’affrontare con il gruppo classe i vari bisogni soggettivi?
A proposito poi della questione di ripartire la retribuzione degli
insegnanti di sostegno ai docenti curricolari, ricordo che per assumere
tale incarico, ho dovuto conseguire una specializzazione che – ai tempi
dei corsi biennali di specializzazione polivalente – era molto
impegnativa (circa un terzo delle 1.300 ore di corso erano
rappresentate da tirocinio diretto e indiretto), ma il Ministero, pur
richiedendone il conseguimento, non l’ha mai riconosciuta in termini
economici e mai è stata fatta oggetto di contrattazione fra Sindacati e
ARAN [Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche
Amministrazioni, N.d.R.]. In altri comparti pubblici – sanità in primis
– ogni specializzazione, se richiesta, viene incentivata economicamente
o determina un inquadramento economico diverso.
Quindi, negli anni, noi insegnanti specializzati abbiamo subito un
danno economico, ma, in realtà, ora non solo siamo considerati come
“insegnanti di serie C” (la “serie A” si identifica con i curricolari
“teorici”, la “serie B” è rappresentata dagli ITP, la vituperata
categoria di “insegnanti teorico-pratici”, in via di estinzione grazie
alla Riforma “Gelmini”, che in realtà cela ulteriori tagli), ma
addirittura dobbiamo “rientrare nei ranghi”.
E l’agognata unicità della funzione docente dove è andata a finire? Il
problema è “rientrare dalla spesa” che gli insegnanti specializzati
rappresentano e che ad oggi è ancora l’unica voce economica che nel
comparto della Pubblica Istruzione non si riesca a ridurre.
A mio parere, quindi, si sta consolidando un futuro “atipico” e che nel
tempo di un lustro andrà in porto: gli insegnanti specializzati
ridiventeranno curricolari, una “task force” di loro si trasformerà in
specialisti e consulenti e verrà collocata presso gli avanzanti CTS
[Centri Territoriali di Supporto, N.d.R.-]. Essi verranno quindi
chiamati dai Consigli di Classe, all’occorrenza, in veste appunto di
specialisti.
Inciso necessario: dalle nostre realtà scolastiche si evince che dopo
l’intervento dello specialista neuropsichiatra infantile, psicologo
ecc., gli insegnanti restano soli a operare nella quotidianità, senza
alcun feedback né supervisione, ma, laddove è presente l’insegnante
specializzato, egli comincia a tessere una rete di interazioni e
interscambi che conducono a sintesi, ovvero a progettare un percorso
che poi si fa vedere agli specialisti. Questi ultimi subito
“capitalizzano”, ovvero se ne accaparrano, inserendolo nel fascicolo
sanitario dell’alunno. Ma chi conosce lo stillicidio di energie profuse
per poter far dialogare le varie Istituzioni? Se la scuola con i suoi
operatori non si muove, gli altri lo fanno? No, attendono. Le altre
Istituzioni – secondo un approccio psicologico chiaro – comunicano alla
scuola: «Se tu hai un bisogno, vieni da me, altrimenti….»; di contro,
l’approccio pedagogico è e deve essere diverso: «Se il bisogno non
emerge spontaneamente, cerco di stimolare l’ambiente, vado incontro
alla “domanda” di aiuto “incistata”» (cos’altro è il sempre più diffuso
disagio giovanile, se non questo?).
In altre parole, i nostri specialisti socio-sanitari attendono nel loro
setting (alias studio), ove tutt’al più ascoltano e forniscono
miserrimi input-conoscitivi, ma lungi dal fornire indicazioni
pragmatico-operative in chiave pedagogica e formativa (e d’altronde
come potrebbero farlo, se gli esperti in termini metodologici e
didattici siamo noi insegnanti? Ma molti curricolari attendono dallo
specialista la panacea. Non succederà così anche per gli insegnanti
specializzati che verranno allocati presso i CTS?).
E allora, chi si occuperà sul campo di ricercare neo-approcci
strategici al servizio del successo formativo dell’alunno-persona? E a
maggior ragione con gli alunni con BEI [Bisogni Educativi Individuali,
N.d.R.]? Una buona preparazione e il desiderio di sperimentare anche
empiricamente aiutano gli insegnanti a “osare” per raggiungere la “zona
prossimale di sviluppo” e in questa azione formativa l’insegnante
specializzato è di norma presente, espletando almeno quattro funzioni:
monitoring, tutoring, coaching, evaluation [“monitoraggio”,
“tutoraggio”, “addestramento” e “Valutazione”, N.d.R.].
Gli alunni nativi digitali e il futuro
In realtà ci si occupa di scuola e di formazione solo allorquando a
scuola ci sono i propri figli. Dopodiché, dell’Istituzione Scuola – che
insieme alla famiglia concorre alla formazione dei futuri cittadini –
ci si disinteressa. Alcune riflessioni in sequenza.
Le scuole possono e riescono ad ampliare la loro offerta formativa –
POF [Piano dell’Offerta Formativa, N.d.R.] - solo ed esclusivamente
grazie ai numerosissimi e ingenti contributi volontari che le famiglie
elargiscono alla scuola stessa, altrimenti, se va bene, si
limiterebbero a fare “semplice istruzione”, altro che formazione delle
persone!
Gli studenti, nativi digitali, sono letteralmente “bombardati” da
innumerevoli stimoli anche socio-relazionali, a tal punto che
allorquando instaurano un contatto reale con gli amici (anziché
virtuali tramite social network), tendono ad allontanarsi dal compito.
Si ha un’idea della fatica quotidiana che occorre fare in veste di
adulti nel richiamare i propri “pupilli”, sempre connessi, alla realtà
reale? Si ha un’idea della fatica che bisogna fare per orientarli al
compito? E si sa, grazie alla compresenza dell’insegnante specializzato
che gira anche fra i banchi, quanti input propositivi vengono forniti
al gruppo degli studenti?
Il riconoscimento sociale della funzione docente si è depauperato
progressivamente e ciò è sotto gli occhi di tutti, talché i docenti
sono “scesi in trincea”. Innanzitutto c’è la “burocrazia” – ovvero
ottemperiamo a tutti gli aspetti procedurali e formali, ivi inclusi PDP
e PEI [Piano Didattico Personalizzato per gli studenti con disturbi
specifici dell’apprendimento-DSA e Piano Educativo Individualizzato per
gli studenti con disabilità, N.d.R.], poi pensiamo – se c’è tempo – a
parlare degli alunni in quanto persone. Si ha un’idea di quanto tempo
necessiterebbe per poter approntare per ogni studente un piano di studi
personalizzato (PSP), come quello previsto dalla Riforma Moratti e
ribadito nella recente Circolare 8/13 afferente ai Bisogni educativi
Speciali, al fine di poter soddisfare sia le istanze di “eccellenza”,
sia di sostenere le esigenze specifiche connesse con i BEI (Bisogni
Educativi Individuali)? Quale professione di aiuto è così costantemente
caricata di lavoro, molto sommerso, e contemporaneamente misconosciuta?
(Come lavoratore dipendente, come faccio a tenere alta la motivazione
se occorre far leva solo su quella intrinseca?).
Il mio fondato timore è che fra non molto il Ministero potrà dichiarare
– come sostengono le associazioni – di avere formato tutti i
neo-insegnanti curricolari, potendo quindi affermare, in occasione del
prossimo rinnovo contrattuale (l’ultimo vero Contratto Collettivo
Nazionale di Lavoro è stato posto in essere nel 1988!), di avere
preparato con specifici master docenti che si occuperanno di disturbi
specifici dell’apprendimento (DSA), presso i Centri Territoriali di
Supporto, distaccando poi degli specialisti nell’area della disabilità
(insegnanti specializzati “superpreparati” in àmbiti specifici, quali i
disturbi pervasivi dello sviluppo in primis), arrivando in tal modo a
contenere finalmente le spese anche per gli insegnanti specializzati
che rientreranno in “cattedra”.
Ebbene, se questa è la prospettiva – non si afferma che siamo tutti
uguali nei diritti, ma tutti diversi nei bisogni? Che occorre dare di
più e compensare a chi in termini neurobiologici ha ricevuto di meno? –
ho delle perplessità sul come riusciremo nel quotidiano a fornire
risposte concrete a chi ha bisogni speciali: persone con disabilità
relazionale, persone che non hanno ancora l’uso della “matematica per
la vita” (ovvero l’autonomia nell’uso del denaro), che non hanno
congrue abilità in àmbito emotivo-relazionale, che non sono autonome in
termini socio-relazionali o nei “semplici” spostamenti (a proposito
dell’orientamento spazio-temporale, se non effettuo uscite sul
territorio, come lo acquisisco? Come potrò recarmi a scuola da solo
usando i mezzi pubblici? I percorsi di alternanza scuola-lavoro
preparati dall’insegnante specializzato chi li farà? Chi tesserà la
rete dei sostegni sul territorio anche con le associazioni?).
Non mi dilungo oltre, ma sono sconfortato e preoccupato per il futuro
dell’inclusione. E connessa a tale “idilliaca prospettiva”, avrei
un’ultima osservazione: è risaputo che sia la nostra Normativa sia le
nostre buone prassi – e in Italia, lungo tutto lo Stivale, anche se a
macchia di leopardo, sappiamo benissimo che si attuano costantemente –
vengono ammirate all’estero, in quanto, pur fra mille difficoltà,
abbiamo saputo inserire e integrare gli alunni con disabilità nella
scuola comune e di tutti. Ma a chi va ascritto in genere il merito di
avere sostenuto il successo dell’integrazione? Innanzitutto allo
studente stesso e subito dopo alla rete di sostegno che l’insegnante
specializzato ha saputo creare, prendendosi a cuore il percorso
formativo dell’alunno. Nei “casi” di gravità, che necessiteranno di un
percorso differenziato e personalizzato, chi penserà – andando oltre il
Piano Educativo Individualizzato – al Progetto di Vita, realizzando
sperimentazioni nell’extrascuola?
Conclusione
Non succederà che anziché potenziare e sostenere l’attuale processo di
integrazione che zoppica – come potrebbe “correre”, invece,
l’inclusione, con sani investimenti “sul capitale umano”! – dovrò
osservare fra un decennio quanto ho dovuto di recente assistere in
Germania?
Al giovane ragazzo disabile motorio in carrozzina (in Germania le altre
“tipologie” di persone disabili frequentano le “scuole speciali”) è
stato semplicemente detto – sia da parte dei compagni che del docente
curricolare – di permanere da solo in aula, in quanto loro dovevano
recarsi in laboratorio a lavorare e quindi si sarebbero rivisti a fine
lezione: dopo un’ora…
*Per “cooperative learning” si intende in sostanza una metodologia di
apprendimento cooperativo, per la gestione complessiva della classe;
per “peer education” la partecipazione attiva degli studenti nei
processi decisionali educativi; per “circle time” un metodo di lavoro
ideato dalla Psicologia Umanistica, per aumentare la vicinanza emotiva
e risolvere i conflitti.
Giovanni Maffullo
Insegnante specializzato e
consigliere di orientamento