Riassumere in
poche battute quello che accade nel vorticoso spazio di 200 giorni è
impossibile. Basta un anno scolastico perché ogni studente e ogni
docente abbia materia sufficiente per uno o due romanzi. Credo sia la
scuola ad avermi costretto a diventare scrittore, altrimenti sarei
rimasto schiacciato da tutte le storie che ogni anno mi capita di
attraversare, vivere, sfiorare. Scrivere è usare una rete da pesca: ha
la sua paradossale forza nei buchi, che lasciano passare l’ovvio della
vita, e nei nodi, che trattengono ciò che si nasconde e sfugge sempre.
Provo a tirare su le reti: dopo un anno che cosa resta?
Proprio l’altro giorno me lo chiedevo e mi è venuta in aiuto una mail
di una studentessa (alla fine di un anno chiedo sempre ai miei ragazzi
in che cosa posso migliorare la qualità del mio insegnamento e quali
errori posso aver commesso senza accorgermene): «Un altro anno è
trascorso. È stato un anno intenso ma veloce, forse troppo, ma un anno
in cui sento di essere cambiata, di aver fatto nuove scoperte e
amicizie.
«Se ci penso è strano, ma per tutti gli ultimi mesi il mio desiderio
era finire il liceo ed andarmene, cambiare aria; ora che manca poco,
che c’è solo un anno ancora, già mi mancano: la classe, i compagni, i
professori, le ore in classe... tutto quello di cui ero stufa fino a
venerdì, quando mi sono resa conto che manca solo un anno.«Se mi posso
permettere Prof, anche lei è cambiato, maturato: per quello che ho
visto io ha imparato a gestire il successo di un libro, i fan, le
presentazioni e l’emozione che questo comporta, riuscendo a conciliarli
con noi alunni, con il programma e le interrogazioni. L’anno scorso
avevo paura che ci abbandonasse, che preferisse fare lo scrittore
piuttosto che insegnare a noi; ora sono tranquilla perché vedo che,
essendo riuscito a conciliare le due cose, è felice di insegnare e di
stare con noi. Quindi grazie per la pazienza e il tempo che ha dedicato
ad ognuno di noi, anche quando forse noi non lo meritavamo troppo».
E quanto mi sia costato ritrovare armonia i miei ragazzi lo sanno,
anche a loro spese.Gli eventi ci impastano e dentro di noi siamo alla
ricerca del centro che non siamo disposti a negoziare con niente e
nessuno, il lievito che, nel mutare continuo delle circostanze, ci
permette di dare ampio consenso alla vita senza esserne vittime. È così
a 35 anni, figuriamoci tra i 14 e i 18. Ogni anno è una vita in
miniatura a quell’età, e quei 200 giorni un’esistenza in carne viva
come è la pelle dell’adolescenza, durante la quale il mutamento è la
regola e il rifiutare il mondo il suo corollario. Che cosa posso mai
accettare, se non riesco ad accettare chi sono neanche per un giorno?
Per questo scrivo di ragazzi nelle mie storie. Il verbo latino
adolescere viene da una radice che indica il «portare a compimento
qualcosa» e il participio passato di questo verbo latino è adultus .
Per diventare adulti bisogna «adolescere» bene. Da adulti poi
bisognerebbe mantenere ciò per cui l’adolescenza è fatta: per che cosa
valga la pena giocarsi la vita futura, senza compromessi, con quella
fame di verità, bellezza e autenticità che è la costante delle
centinaia di ragazzi che ho incontrato in questi anni a diverse
latitudini del nostro Paese.
Quando ci decideremo a rinnovare il paradigma che interpreta le età
della vita come compartimenti stagni da superare e chiudersi alle
spalle? Quando cominceremo a raccontare la vita come continuum in cui
le età si mescolano continuamente e ritornano, soprattutto quando
alcune fasi sono state trascurate? Solo così trasformeremo
l’adolescenza da una malattia ad una possibilità, l’adolescente da
oggetto da risolvere a soggetto capace di creare. Ma questa è un’altra
storia.
Che cosa resta di quest’anno? Voti? Interrogazioni? Compiti? Programmi?
Scartoffie? Note? Tutto questo lo laveranno via le prime settimane di
vacanze. Quello che resta è invece la solita umile, usata,
difficilissima arte di vivere: quanto sono cresciuto nell’amore ai miei
colleghi e ai miei studenti? Purtroppo non ha memoria la vita se non
dell’amore declinato nelle sue molteplici e quotidianissime forme:
quanto tempo dedicato a quella lezione per raccontarla proprio a quegli
studenti, diversi da quelli dell’anno prima? Quanto tempo trascorso con
un collega in cerca di strategie migliori per la loro crescita? Quanto
tempo dedicato al quaderno con una pagina per ogni alunno con su
scritti i punti forti e i punti deboli, per aiutarlo a superare i
secondi grazie ai primi? Quanto tempo speso con ragazzi al di fuori
dell’ora di lezione? E quanto tempo perso a sparlare e demolire?
Qualche giorno fa, in un momento di sconforto burocratico, ho formulato
una legge: somma il numero di ore impiegate a parlare dei e con i
ragazzi, sottrai il numero di ore dedicate a compilare carte e
registri. Il risultato, spesso purtroppo negativo, è la scuola italiana.
E che cosa resterà di una scuola così? Quelle riunioni, quelle
scartoffie? Non credo, nessuno vive e lavora per queste cose.
Resteranno le vite dei ragazzi e le nostre, mutate e maturate con le
loro, per un più pieno compimento nostro e loro.
Spesso ho sentito dire da alcuni colleghi che noi siamo seminatori di
dubbi. Io preferisco dire seminatori di domande. Ma prima dobbiamo
trovare il coraggio di porle a noi stessi: che cosa resta di quest’anno?
Alessandro
D’Avena - La Stampa