Quello
che sta succedendo in Italia o, meglio, nelle università e nelle scuole
di molte città italiane, da Torino e Milano da Roma a Palermo, indica
con chiarezza due cose che ho letto assai poco sui giornali italiani e
che non ho sentito in nessuno dei telegiornali del nostro paese.
Cerco di sintetizzare la mia impressione: i giovani, non tutti, quelli
più attivi e appassionati, hanno capito che questa maggioranza
parlamentare, e di governo, non è in grado di riformare l'università
italiana e farla diventare un'università paragonabile a quella dei più
civili paesi europei.
Non si può parlare di merito, e persino di premi per alcuni professori,
se si impedisce il ricambio del personale insegnante, se si tagliano i
fondi per la ricerca scientifica, se si continua a investire meno
dell'uno per cento nel settore dell'istruzione di fronte a paesi
dell'Occidente come degli Stati Uniti e dell'Europa come la Germania e
la Francia che investono più del due per cento, e in certi casi, una
percentuale che si avvicina al 3 per cento del Pil.
Ma non è possibile avere a che fare con un ministro come Maria Stella
Gelmini che non è in grado di rendersi conto della contraddizione di
fondo che anima la «sua» riforma: di parlare di meritocrazia e di lotta
ai «baroni universitari» e, nello stesso tempo, confermare i tagli
enormi già fatti agli atenei in questa legislatura (più di un miliardo
di euro con la legge numero 133).
Deciderà il ministro dell'Economia Giulio Tremonti sulle materie che
riguardano il settore della Pubblica Istruzione. E allora che ci sta a
fare un ministro che non possiede qualità intellettuali e politiche
adeguate a una situazione complessa e difficile come quella
dell'università in questi anni?
Il governo Berlusconi dovrebbe rendersi conto che, grazie alla sua
azione mistificatrice, è riuscito a unificare l'opposizione di
studenti, ricercatori e di parte degli stessi professori che, pur
divisi da mille questioni particolari, respingono tutti insieme il
tentativo grossolano di far passare per buona una riforma, o presunta
tale.
Una controriforma - è proprio il caso di definirla così - che insiste
sui tagli e sullo smantellamento dell'università pubblica a vantaggio
di fondazioni private nei consigli di amministrazione, svuotando di
ogni potere i senati accademici da cui continuano ad essere esclusi
studenti e ricercatori.
L'Italia, il paese che possiede il maggior patrimonio culturale e
artistico del mondo, tra gli stati fondatori dell'Unione Europea nel
1957, dovrebbe - nei progetti dell'attuale classe di governo guidata da
Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti - comportarsi come se fosse uno
degli ultimi stati che hanno aderito all'Unione Europea e non avesse
l'antica tradizione culturale di cui disponiamo. È una contraddizione
di cui dovrebbero finalmente rendersi conto le classi dirigenti della
penisola, non solo il parlamento e il governo attuale, e comportarsi di
conseguenza. Tanti giovani universitari lo hanno capito e a loro
dobbiamo una rivolta che ha almeno frenato il disegno di legge Gelmini.
Ora è necessario lavorare per elaborare una proposta alternativa di
riforma. E farlo in tempi brevi perché nei prossimi mesi dovremo
prepararci a uno scontro politico e culturale con il populismo
autoritario di Berlusconi e con quelli che, di questo populismo,
continuano ad essere complici più o meno consapevoli. Una proposta
alternativa che ponga al centro dell'università gli studenti e quelli
che vi lavorano, che investa le risorse necessarie nella ricerca
scientifica e in una didattica adeguata al nostro secolo, che trasformi
l'università italiana in un sistema moderno e confrontabile a quello
dei più avanzati paesi europei.
Ma, perché questo accada, occorre mandare a casa il berlusconismo e
rinnovare a fondo la classe politica del centro-sinistra, privilegiando
le donne e gli uomini che fanno politica per il bene comune e non per
la propria personale carriera. Un compito difficile. Ma forse non
impossibile nell'Italia del ventunesimo secolo.
( da Il Manifesto di Nicola Tranfaglia)
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