PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la
discussione del disegno di legge: Delega al Governo per il riordino dello stato
giuridico dei professori universitari; e delle abbinate proposte di legge di
iniziativa dei deputati: Angela Napoli; Angela Napoli; Angela Napoli; Gazzara;
Migliori; Angela Napoli; Caminiti; Angela Napoli;
Angela
Napoli; Mario Pepe ed altri; Ranieli ed altri; Mario Pepe ed altri; Titti Simone
e Russo Spena; Santulli; Dorina Bianchi ed altri; Grignaffini ed altri; Mario
Pepe ed altri; Carrara; Gazzara; Gazzara; Lucchese ed altri; Capitelli; Losurdo;
Martella ed altri; Ercole; Santulli; Santulli.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al
vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
LUCIANO VIOLANTE. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIANO VIOLANTE. Signor Presidente,
nella riunione della Commissione cultura del 17 febbraio scorso si sono tirate
le fila di un dibattito molto lungo sul testo in esame. In quell'occasione,
tanto deputati dell'opposizione quanto deputati della maggioranza hanno
sottolineato l'opportunità di un riesame approfondito del provvedimento e molti
colleghi della maggioranza hanno proposto che il testo tornasse in Commissione a
condizione che il successivo esame in aula fosse particolarmente breve. Questa
fu la posizione espressa dagli onorevoli Emerenzio Barbieri e Garagnani nonché
dal presidente Adornato, il quale decise di inviare una lettera al Presidente
della Camera segnalando, in primo luogo, la necessità di un esame approfondito
del testo e, in secondo luogo, che il provvedimento potrà tornare in Commissione
a condizione che l'iter in aula fosse concluso in tempi molto rapidi.
Prendo la parola a nome dei colleghi della Federazione uniti nell'Ulivo in
quanto riteniamo che l'università abbia bisogno di una svolta profonda e rapida
e che dunque il testo in esame necessiti di profondi e radicali cambiamenti.
Tra l'altro, anche il ministro si è detta disponibile a valutare positivamente
cambiamenti che riguardano la stessa di natura del testo, riducendo la parte
relativa alla delega e aumentando la parte di legislazione diretta.
In questo quadro si può procedere in due modi. Il modo più tradizionale è quello
secondo il quale si presentano gli emendamenti, che saranno esaminati dal
Comitato dei nove per poi riprendere l'esame da parte dell'Assemblea. Tuttavia,
mi permetto di sconsigliare questa strada, perché il testo, una volta all'esame
dell'Assemblea, rischierà di essere affidato alle emozioni e ai sentimenti del
momento senza che vi sia stato un esame approfondito in Commissione.
Invece, mi permetto di consigliare - e do la disponibilità dei gruppi della
Federazione in tal senso - che gli interventi di oggi del relatore e del Governo
siano volti a chiarirci quali possano essere i punti di correzione del testo.
Dopodiché, se si deciderà di rinviare il testo in Commissione, la nostra
disponibilità sarà massima affinché l'esame sia rapido, al fine di riprendere al
più presto l'esame in aula. Volevo che ciò fosse chiaro ai colleghi della
maggioranza, in quanto non vogliamo assolutamente che si perda ancora del tempo.
Tuttavia, riteniamo che una riforma abbandonata a maggioranze occasionali
dell'Assemblea rischi di farci perdere tempo, anziché guadagnarlo. Chiedo
pertanto all'onorevole relatore, ai colleghi, e, se lo riterrà, al ministro, che
opinione abbiano di questo tragitto e di questo itinerario, fermo restando che
il testo può tornare in Assemblea negli stessi tempi in cui ciò accadrebbe con
l'esame da parte del Comitato dei nove. È importante che sia la Commissione
nella sua integrità ad esaminare il provvedimento, in quanto ciò consentirebbe
di risolvere alcuni problemi che altrimenti incontreremmo nel corso dell'esame
da parte dell'Assemblea.
PRESIDENTE. Presidente Violante, stando a quanto da lei riferito, vi è un dibattito in corso. Peraltro, il Presidente della Commissione cultura, in data 18 febbraio scorso, ha inviato una lettera al Presidente della Camera, nella quale riferisce la disponibilità del Governo - che il ministro potrà eventualmente confermare - a valutare, nel corso dell'esame da parte dell'Assemblea, proposte emendative, anche in relazione ad aspetti qualificanti del progetto, preannunciando la sua disponibilità ad un eventuale rinvio del testo in Commissione, venendo in tal modo incontro alle sue richieste...
LUCIANO VIOLANTE. Mi scusi, signor Presidente, intendevo soltanto richiamare l'attenzione del ministro e dei colleghi sulla nostra disponibilità ad esaminare il provvedimento in tempi rapidi: si tratta, infatti, della seconda condizione che è stata posta, e siamo disponibili al riguardo.
ELIO VITO. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ELIO VITO. Signor Presidente, intervengo
brevemente per raccogliere la disponibilità del Presidente Violante. Ritengo che
potremmo procedere in questo modo:
svolgere questa sera la discussione sulle
linee generali, concordando sull'esigenza di fare in modo che essa sia già una
sede in cui iniziare a sciogliere i primi nodi e a comprendere il merito dei
nuovi emendamenti preannunciati dal Governo la settimana scorsa in Commissione;
successivamente, trovare, anche nella sede della Conferenza dei presidenti di
gruppo, prevista per la metà della settimana, il modo migliore per portare a
compimento una riforma tanto attesa.
Preciso inoltre per correttezza, dal momento che è stato citato il presidente
Adornato, che a me risulta che, proprio per venire incontro all'esigenza
espressa da tutti i colleghi, sia della maggioranza sia dell'opposizione, di un
compiuto esame degli emendamenti, il presidente Adornato abbia convocato, per
l'esame degli emendamenti stessi, avvalendosi di una specifica previsione
regolamentare, non già il Comitato dei nove, bensì l'intera Commissione.
Potremmo dunque anche evitare di procedere - ma non intendo «mettere le mani
avanti» - al rinvio in Commissione, concedendo un maggior tempo alla Commissione
stessa per esaminare gli emendamenti. Infatti, se questo è lo spirito, ritengo
possa essere sufficiente consentire all'intera Commissione di esaminare gli
emendamenti, senza il rinvio. Tuttavia, è importante lo spirito con il quale si
intende procedere, e credo dunque sia opportuno ascoltare il relatore, il
ministro e gli altri colleghi che interverranno.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione
sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo ne ha
chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi
dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto altresì che la VII Commissione (Cultura) si intende autorizzata a
riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Mario Pepe, ha facoltà di svolgere la relazione.
MARIO PEPE. Signor Presidente, signor
ministro, onorevoli colleghi, il provvedimento in esame si propone una profonda
rivisitazione della disciplina concernente lo stato giuridico dei professori
universitari e dei ricercatori, in tutti i suoi aspetti, a partire da quelli
relativi al reclutamento e alle tipologie contrattuali attivabili dalle
università, per giungere poi a quelli concernenti i diritti e i doveri, il
trattamento economico e il pensionamento.
Il mondo accademico ha molto atteso questo provvedimento, che dovrebbe dare
vitalità ad un corpo docente invecchiato e paralizzato da regole rigide. Per
tale motivo, onorevole Violante, ritengo che il paese non possa più permettersi
di ritardare l'approvazione del provvedimento stesso: il Parlamento ha ritmi
lenti e solenni, in cui il culto del rituale prevale sull'efficienza
legislativa. Temo pertanto che il rinvio in Commissione, con la necessità di
acquisire nuovamente il parere delle Commissioni consultive, comporterebbe un
allungamento dei tempi, che, come ho già sottolineato, il paese non può
permettersi.
È un momento non facile per la nostra università, gravata da problemi antichi e
nuovi. La carenza cronica di risorse da destinare alla ricerca, la mancanza di
un ricambio generazionale durato un ventennio, la fuga dei ricercatori
all'estero, che uno stipendio caritatevole di 1.300 euro e una carriera tutt'altro
che facile non sono riusciti ad evitare, hanno determinato una perdita di
competitività del sistema universitario italiano nel quale la prima università,
quella di Roma, è solo al settantaduesimo posto dello score
internazionale. Dopo le ultime riforme dei Governi di centrosinistra, che hanno
visto una provincializzazione delle nostre università, un proliferare dei corsi
di laurea, senza alcun rapporto con le opportunità di mercato, un eccessivo
localismo nell'assunzione dei docenti, con la famigerata «idoneità a tre»
dell'era Berlinguer, oggi l'università italiana si interroga su quale debba
essere la sua missione, se cioè l'università debba avere come missione la
ricerca e la formazione o solo la formazione.
Il problema dell'università è quello di veder ridefinito il suo ruolo e il
sistema di funzionamento. L'autonomia stabilita dalla Costituzione è una risorsa
preziosa, ma se non vi è competizione regolata fra le università diventa libertà
di sprecare risorse, di istituire corsi di laurea inutili, di assumere docenti
mediocri senza avere nessuna penalizzazione. Una scelta decisa e coerente verso
un'università che sia sede primaria della ricerca e della trasmissione critica
del sapere è quella che veda protagonista atenei in competizione tra loro
all'interno di regole che premino la qualità e richiede che siano stabiliti dei
requisiti di accreditamento decisamente più rigorosi rispetto a quelli attuali,
norme di accreditamento che lascino alle università un margine di scelta,
risorse adeguate agli standard internazionali ed un'apertura all'apporto dei
privati allo sviluppo della ricerca. Occorre favorire con opportune norme di
defiscalizzazione i rapporti fra università ed imprese, sia riguardo alla
formazione sia ai progetti di ricerca svolti prevalentemente nelle università.
Tutto ciò è contenuto nella mia proposta n. 1979, abbinata al disegno di legge
governativo.
Gli atenei devono competere tra di loro non solo per ottenere finanziamenti da
istituzioni pubbliche o private ma anche per attrarre gli studenti migliori.
Qualcuno ha definito la nostra università come l'università degli assenti. Gli
assenti sono prima di tutto gli studenti, che non frequentano le università, ma
vi si recano solo per sostenere gli esami (esamifici dunque)! A questo punto
ogni università è uguale all'altra perché rilascia titoli con lo stesso valore
legale.
Ma gli assenti sono anche molti docenti, demotivati e mal pagati, che nessuno
controlla e nessuno valuta nell'efficacia della loro attività docente e di
ricerca. Questo, signori del Parlamento, non succederà più!
Assenteismo, diserzione, rendite di posizione, sono i mali che affliggono buona
parte dei nostri docenti. Riformare l'università significa modificare i
comportamenti dei docenti e degli studenti e creare motivazioni con
gratificazioni ed incentivi. Non serve dunque fare riforme se non si interviene
sulle motivazioni personali di chi la riforma dovrebbe attuarla o subirla.
E veniamo al problema cruciale che la riforma deve affrontare: i ricercatori
universitari. Chi sono i ricercatori universitari? Tale figura nacque con il
decreto legislativo n. 382 del 1980, come fascia di formazione alla docenza.
L'intento del legislatore era quello di far transitare nella fascia i giovani
per un rapido accesso alla docenza. I ricercatori dovevano essere, dunque, il
vivaio della docenza. Già allora si discusse se il ruolo dovesse essere
permanente o ad esaurimento. L'ultimo comma del decreto legislativo n. 382 del
1980 recita: «Dopo quattro anni dall'entrata in vigore della presente legge il
Ministro della Pubblica istruzione, sentito il Consiglio nazionale
universitario, presenta al Parlamento un disegno di legge per definire il
carattere permanente o ad esaurimento dei ricercatori».
Fascia di formazione vuol dire in effetti una fascia che ha un termine, dalla
quale cioè ad un certo punto si deve uscire perché coloro che vi entrano e la
attraversano o si immettono nel ruolo di professori oppure dimostrano di non
avere le attitudini necessarie per questa immissione.
Una fascia un ruolo di formazione, per la sua intrinseca natura non può avere
carattere permanente, pur se permanente è la sua funzione di formazione. Nel
momento stesso che il ruolo divenne permanente cessò di essere un ruolo di
formazione. Fu proprio in quella occasione che il legislatore sbagliò sbarrando
la strada al passaggio dei ricercatori sulla passerella dei concorsi del ruolo
dei professori associati.
La legge, infatti, ha sempre negato la loro ammissibilità ai giudizi
d'idoneità per professore associato, che si sono celebrati successivamente al
1980, anche se leggine ad hoc hanno ammesso a tale giudizio categorie
privilegiate, come i tecnici laureati, come gli incaricati che non avevano
maturato i requisiti al 31 agosto 1980 al pari dei ricercatori.
Debbo far rilevare al signor ministro che, proprio mentre la legge n. 382 era
in itinere, furono immessi nelle università migliaia di incaricati,
transitati poi nel ruolo degli associati. Si comprende dunque l'angoscia dei
ricercatori che hanno visto chiudersi l'orizzonte sulle legittime aspirazioni di
carriera. Gli attuali ricercatori si sono sentiti prigionieri del ruolo, che per
loro è diventato una gabbia.
Per ben diciotto anni non sono stati banditi nuovi concorsi. Da qui nasce
l'angoscia da cui provengono tante tensioni che hanno turbato e turbano la vita
interiore dei nostri atenei in questi ultimi tempi: non più ruolo di formazione,
ma ruolo non docente con funzione docente.
L'articolo 12 della legge n. 341 del 1990 amplia i compiti dei ricercatori,
riducendo il divario tra questi ed i professori, dispone la loro partecipazione
a pieno titolo alle commissioni di esame per i corsi di diploma di laurea e di
specializzazione, dispone che siano relatori di tesi, che assumano in carico
corsi di insegnamento a titolo di supplenza o di affidamento.
Analogamente a quanto disposto per gli ordinari associati, anche i ricercatori
vengono sottoposti ad una verifica triennale dell'attività scientifica e
didattica. Il trattamento economico viene agganciato a quello dei professori
associati: la legge n. 341 ha creato nei fatti la terza fascia docente.
Oggi i ricercatori coprono circa il 45 per cento dei corsi universitari,
contribuendo non poco alla realizzazione della riforma dell'ordinamento
didattico, il cosiddetto «3 più 2» . Ed allora, se sono docenti a tutti gli
effetti nella sostanza, perché non lo possono essere anche nella forma?
Da qui è nato il mio emendamento, accolto dalla Commissione, volto ad attribuire
loro almeno il titolo di professore e di riservare ai ricercatori più bravi
alcuni posti nei giudizi di idoneità a professore associato.
Io credo che questo sia l'unico modo possibile per sanare un lungo contenzioso
fra il ricercatori e lo Stato e per ridurre la sperequazione fra opportunità e
merito, che si è creata negli ultimi venti anni.
Il testo su cui la Commissione ha incentrato il proprio esame è quello del
disegno di legge di iniziativa governativa, presentato alle Camere nel febbraio
2004ed esaminato dalla Commissione a partire dal successivo mese di marzo. La
Commissione, peraltro, aveva già da due anni avviato la discussione
sull'argomento, esaminando le numerose proposte di legge presentate da tutti i
gruppi parlamentari, di riordino generale della materia - come la proposta di
legge n. 1979, di cui io stesso sono primo firmatario - e recanti interventi
puntuali su questioni più specifiche - tra cui merita, in particolare, ricordare
le numerose proposte volte all'istituzione della terza fascia dei docenti
universitari.
Il testo proposto dal Governo è stato, quindi, esaminato dalla Commissione,
avendo ben presenti le esigenze rappresentate dalle diverse forze politiche, ed
è stato in più punti modificato nel corso dell'esame. Un percorso di modifica
che, peraltro, non si può considerare ancora concluso, come si dirà meglio più
avanti, stante la disponibilità del Governo e la volontà della maggioranza di
intervenire ancora in modo significativo su alcuni degli aspetti qualificanti
del testo fin qui elaborato, che costituisce quindi un momento di passaggio
verso un punto di equilibrio più avanzato e, auspicabilmente, più condiviso
dalle varie forze politiche.
Passando ad illustrare i contenuti del testo licenziato dalla Commissione, va
segnalato che l'articolo 1 definisce i princìpi generali del sistema
universitario, anche ai fini dell'esercizio dell'autonomia universitaria. Si
ribadisce il collegamento tra le attività didattiche e quelle di ricerca, che
sono assoggettate ad un sistema di valutazione nazionale, secondo criteri che
tengono conto della qualità e diffusione della produzione scientifica e della
qualità e intensità dell'attività di insegnamento.
Per lo sviluppo ed il miglioramento della qualità del sistema universitario è
anche previsto un piano programmatico di investimenti.
Merita segnalare che tale articolo - che fa da cornice all'intera riforma - è
stato introdotto con un emendamento del Governo, che andava incontro a
sollecitazioni espresse dai diversi parlamentari di maggioranza e di
opposizione.
L'articolo 2, che costituisce il cuore del provvedimento, delega il Governo a
«procedere alla riforma dello stato giuridico dei professori universitari
garantendo una selezione adeguata alla qualità delle funzioni da svolgere
unitamente a forme di flessibilità del rapporto di lavoro». La delega dovrà
essere attuata entro 12 mesi. Quanto ai principi e criteri direttivi della
delega, è prevista innanzitutto l'introduzione di procedure finalizzate al
conseguimento dell'idoneità scientifica nazionale - di durata non superiore a
cinque anni - bandite annualmente dal ministero, per le fasce degli ordinari e
degli associati e per settori scientifico-disciplinari. Si torna quindi ai
concorsi nazionali, considerata l'inadeguatezza dell'attuale sistema di
selezione a livello locale. Alle università é rimessa la disciplina delle
procedure di copertura dei posti nonché l'attribuzione degli incarichi,
rinnovabili per un periodo complessivo non superiore a sei anni, durante il
quale le medesime possono nominare in ruolo i docenti titolari di incarico. Sono
poi previste modalità alternative di reclutamento: nomina in ruolo di studiosi
di chiara fama (fino al 6 per cento dei posti); contratti a tempo determinato
con soggetti in possesso di elevata qualificazione scientifica e/o con studiosi
di fama internazionale impegnati all'estero da almeno un triennio (entro il
limite del 50 per cento dei docenti in ruolo); istituzione temporanea - per un
periodo di tre anni, rinnovabili - di posti di professore ordinario nell'ambito
di specifici programmi di ricerca sulla base di convenzioni con soggetti
pubblici o privati. Il provvedimento introduce inoltre forme di convenzionamento
per la realizzazione di programmi di ricerca affidati a professori universitari.
L'obiettivo immediato e prioritario, che sarà oggetto di un mio emendamento, è
la sistemazione degli idonei, almeno di quelli che, essendo già strutturati
presso un'università, hanno vinto l'idoneità in altra sede. Su questo il
ministro, come dirò in seguito, ha dato ampia disponibilità. Ad ogni modo, in
conformità a quanto stabilito dall'articolo 1, si possono fin d'ora invitare gli
atenei ad attivarsi per ottenere da soggetti pubblici e privati una parte del
finanziamento necessario per la copertura dei costi differenziati.
Per quanto riguarda i ricercatori, su cui tornerò più avanti, il testo della
Commissione prevede l'introduzione di un nuovo sistema di reclutamento
attraverso contratti a tempo determinato. La durata di tali contratti,
inizialmente definita in cinque anni, nel corso dell'esame è stata ridotta a
quattro anni, rinnovabili fino ad un massimo di otto, compreso il dottorato di
ricerca.
L'ampio dibattito svolto sulla questione dei ricercatori ha già condotto
all'approvazione di un emendamento (lettera q)) che attribuisce il titolo
di professore aggregato ai ricercatori, agli assistenti di ruolo ad esaurimento,
ai tecnici laureati che hanno svolto attività di docenza e ai professori
incaricati stabilizzati, previa valutazione dell'attività didattica e
scientifica svolta. Ad essi sono affidati incarichi di insegnamento nei corsi di
laurea triennale e compiti di tutoraggio e didattica integrativa. Su questo
punto ci saranno non pochi problemi in Assemblea, e ciò non lo nascondo, dal
momento che molti esponenti della maggioranza, raccogliendo la protesta della
categoria dei ricercatori, mi hanno manifestato l'intenzione di presentare
emendamenti per l'istituzione della terza fascia docente.
Per quanto attiene agli aspetti più direttamente attinenti allo stato giuridico,
si segnalano le nuove disposizioni in materia di incompatibilità, che ampliano
le possibilità di svolgimento di attività professionali, di consulenza e di
esercizio di incarichi retribuiti. Le disposizioni in materia sono state meglio
specificate nel corso dell'esame in Commissione, con l'approvazione di diversi
emendamenti. Il collocamento a riposo è stabilito al termine dell'anno
accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, e viene abolito
il collocamento fuori ruolo per limiti di età.
Con riferimento al trattamento economico...
PRESIDENTE. Onorevole Mario Pepe, concluda.
MARIO PEPE, Relatore. Presidente, le chiedo ancora qualche minuto, anche perché io in quest'aula ho osservato un lungo ramadan della parola. Non sono uno che parla molto.
PRESIDENTE. Onorevole Mario Pepe, per quanto mi riguarda non ho nessun Corano tale da averle imposto questo lungo ramadan. Questo digiuno volontario è dipeso da lei.
MARIO PEPE, Relatore. Chiedo allora alla Presidenza, oltre all'autorizzazione alla pubblicazione del testo integrale della mia relazione in calce al resoconto della seduta odierna, che mi sia concesso almeno di concludere il mio intervento.
PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. Concluda, onorevole Mario Pepe.
MARIO PEPE, Relatore. Mancherei ad
un preciso dovere se non aggiungessi che il ministro ha dato la sua
disponibilità a valutare positivamente eventuali emendamenti di modifica
dell'articolo 2 nei seguenti punti: ricorso alla legge delega solo per la
disciplina del reclutamento, disciplinando lo stato giuridico con legge
ordinaria; conservazione della distinzione fra tempo pieno e tempo definito;
assunzione subito dei professori ordinari associati ed eliminazione dello
straordinariato; introduzione di una figura permanente dedicata alla ricerca a
tempo indeterminato per i nuovi ricercatori che non superino l'idoneità a
professore associato.
Il ministro, inoltre, ha dato piena disponibilità a valutare la possibilità di
prevedere nelle norme transitorie il passaggio al ruolo di ricercatore del
personale medico ad elevate professionalità assunto a tempo indeterminato dai
policlinici universitari e dei funzionari tecnici, previa verifica dell'attività
svolta nella loro funzione.
In conclusione, data la disponibilità del ministro ad accogliere ulteriori
suggerimenti, sia della maggioranza sia dell'opposizione, auspico che si possa
migliorare il testo e che il provvedimento trovi un ampio consenso in questa
Assemblea, come si conviene ad una riforma da cui dipende l'avvenire del nostro
paese (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
LETIZIA MORATTI, Ministro
dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Signor Presidente, vorrei
ringraziare il relatore e gli intervenuti per l'attenzione prestata - e in
questa sede riconfermata - su una problematica che deve trovare una soluzione,
perché le università possano essere valorizzate come centro di formazione
avanzata di ricerca e come il luogo nel quale si forma il capitale umano e
sociale del nostro paese che ne costituisce la ricchezza.
A mio avviso, il dibattito in Commissione è stato molto approfondito.
L'onorevole Mario Pepe ha ricordato che tale dibattito è iniziato prima della
presentazione del disegno di legge del Governo, con l'esame di diverse proposte
di legge che, per circa due anni, sono state oggetto di attenzione da parte
della Commissione. La discussione sul disegno di legge di iniziativa governativa
è durato circa un anno, dalla presentazione del provvedimento nel febbraio 2004.
Come è già stato ricordato dal relatore, il confronto positivo tra la
maggioranza e l'opposizione ha migliorato il testo originario del provvedimento
in esame. Credo che questo, di per sé, abbia un grande valore.
A seguito delle audizioni svolte in Commissione, sono stati evidenziati alcuni
punti che potranno essere oggetto di modifiche; si tratta degli stessi punti
ricordati dal relatore, onorevole Mario Pepe. Riconfermo la disponibilità da
parte del Governo a lavorare su tali aspetti per trovare una soluzione che sia
il più possibile condivisa.
Vorrei concludere, rilevando che concordo con le proposte formulate dal
presidente Elio Vito e dal relatore riguardanti le modalità e le procedure con
cui si intende proseguire l'esame del provvedimento (Applausi dei deputati
del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Grignaffini. Ne ha facoltà.
GIOVANNA GRIGNAFFINI. Signor Presidente, signor ministro, onorevoli colleghi, sono davvero dispiaciuto per la solitudine che il ministro sta vivendo in aula questa sera...
PRESIDENTE. Non è sola, c'è il presidente del gruppo di Forza Italia.
GIOVANNA GRIGNAFFINI. È una solitudine testimoniata dall'assenza degli
esponenti della sua maggioranza; peraltro, nessun membro della Commissione
appartenente alla maggioranza è iscritto a parlare. Non c'è neanche il
presidente della Commissione... Mi si faceva notare giustamente che è presente
il presidente
Elio Vito, che credo sia venuto a darle una prova d'affetto e di
solidarietà.
Signor ministro, la invito ad esaminare la relazione del collega Mario Pepe,
che, per metà, ha parlato del suo provvedimento e, per l'altra, ha illustrato,
in modo burocratico, quello del Governo, preannunciando emendamenti da parte sua
e della maggioranza.
Perché siamo arrivati a questo punto, addirittura con una proposta di
cambiamento del testo, su cui poi voglio tornare? Credo che questa materia, per
la sua delicatezza, avrebbe richiesto da parte sua un altro atteggiamento,
un'altra delicatezza, un'altra capacità di ascolto; di ascolto e di confronto
vero, non di quell'ascolto che fa trascorrere il tempo in Commissione.
C'è stata la mobilitazione di tutte le università, ci sono stati i rettori che
hanno minacciato le dimissioni; poi, è vero, si è costruito un tavolo tecnico
con la conferenza dei rettori, da cui lei ha tratto importanti indicazioni. C'è
il movimento dei ricercatori, dei dottori di ricerca; tutto
il corpo docente ha manifestato contro questo provvedimento; c'era un iter
difficile, ancora molto aperto, in Commissione, e lei invece ha chiuso il
dibattito e il confronto, presentandosi in primo luogo con una legge delega e -
al di là delle acquisizioni su alcuni principi - con la «intrasformabilità» dei
punti che costituiscono la vera e propria ossatura di questo disegno di legge.
Ci voleva più delicatezza, perché la materia di cui stiamo trattando è di
rilievo costituzionale, atteso che, quando si parla dei diritti e dei doveri dei
professori universitari, si parla di valori costituzionalmente tutelati: la
libertà della scienza e il suo insegnamento; l'autonomia della istituzione
universitaria. Ci voleva delicatezza, ascolto, capacità di confronto, perché,
quando si parla di università, si parla del luogo della comunità vivente, della
trasmissione e della formazione del sapere, del luogo di formazione delle classi
dirigenti, ma anche della capacità di una comunità, di una società, di
immaginare il futuro, di radicarsi nel suo passato, di procedere verso scoperte
scientifiche, tecnologie, e così via, verso il proprio futuro e il proprio
progresso. Ed oggi sappiamo - lo sappiamo non solo dopo Lisbona - che il sapere
e la capacità di avere più sapere incorporato nelle tecnologie, incorporato nei
processi di formazione e di apprendimento, incorporato nella vita quotidiana,
incorporato nella professionalità, è la grande sfida, è la grande capacità di
avere quella che viene definita la società della conoscenza, la società più
capace di competere negli scenari futuri.
C'era l'idea di un paese, c'era la sua identità, c'era il rilievo
costituzionale, c'era l'idea di futuro, c'erano i diritti e i doveri, c'era
l'autonomia: ci sarebbe stato bisogno di altro. Lei invece ha scelto lo
strumento della delega; una scelta sbagliata! Come opposizione, l'abbiamo
criticata fin da subito e abbiamo chiesto con forza in Commissione il ritiro
della delega, in quanto strumento improprio per rispondere all'articolazione di
tutte queste problematiche.
Oggi - tre giorni fa in Commissione, ma oggi ancora di più - veniamo a sapere
che forse la delega, quanto meno per le parti che vanno a coprire lo stato
giuridico, sarà ritirata o almeno sarà trasformata in un disegno di legge
ordinario. Noi ci rallegriamo di questa decisione, ma, signor ministro, perché
non ci ha ascoltato un anno fa? Perché non ha ascoltato tutta l'università che
le diceva questa cosa elementare? Prima è stato detto che abbiamo perso un anno:
mi viene da dire che l'abbiamo perso a causa sua, visto che tutti eravamo
concordi sul fatto che la delega fosse uno strumento improprio...!
Adesso nella memoria che lei ci ha presentato in Commissione la settimana scorsa
troviamo scritto che il provvedimento verrà per grande parte coperto da un
disegno di legge ordinario e solo per la parte relativa ai concorsi si
continuerà ad usare lo strumento della delega.
Noi non sappiamo se sarà così - faccio fede sulla memoria che ci ha consegnato
-, ma se è così, per quella parte ce ne rallegriamo.
Credo che sia una vittoria dell'opposizione e dei movimenti sviluppatisi in
ambito universitario; sicuramente, però, abbiamo perso un anno.
La riforma, certo, era urgente e necessaria; tutti lo abbiamo riconosciuto. Il
nostro sistema universitario, però, non è riconducibile allo scenario
apocalittico descrittoci dal relatore, onorevole Mario Pepe; non so in quale
nazione pensi di vivere e di quale università ritenga di averci dato un
resoconto con le sue dichiarazioni. Infatti, il nostro è un sistema che ancora,
quanto alla capacità di ricerca, al raggiungimento della laurea da parte di un
numero sempre maggiore di studenti ed alla abbreviazione dei tempi connessi al
detto conseguimento, nonché alla capacità di tenere insieme ricerca e didattica
- ma di tanti altri elementi si potrebbe discutere -, mantiene, nonostante tutte
le difficoltà, un livello sufficiente di competitività rispetto agli altri paesi
europei. Presenta, però, molti profili critici, sicché talune situazioni vanno
modificate. Ad alcune di queste, ovviamente,
ha cercato di ovviare il disegno di legge alla nostra attenzione; infatti, nelle
nostre università, circa 20 mila ricercatori sono senza stato giuridico, il che
rappresenta un grave problema, in quanto si tratta di persone che da anni
garantiscono il funzionamento delle nostre università svolgendo insieme ricerca
e didattica. Si tratta di lavoratori che non hanno alcuno status, pur svolgendo
importanti compiti dal punto di vista della didattica, specie con i nuovi
carichi di lavori derivati, per l'appunto, dall'attuazione della riforma.
Qualsiasi osservazione si voglia fare al riguardo, in base ai dati della CRUI -
la conferenza dei rettori delle università italiane - il rapporto tra docenti e
studenti, nel nostro paese, si attesta in una forbice che va da 1 su 24 ad 1 su
32 (a seconda che vengano o meno considerati gli studenti fuori corso); ciò,
rispetto a tutti gli altri paesi europei - che invece si attestano tra 1 su 11
ed 1 su 17 - costituisce uno degli elementi che, per così dire, mettono alquanto
fuori competizione il nostro sistema.
Dunque, abbiamo bisogno di più docenti e di più ricercatori: non vi è una
sovrabbondanza di questi ultimi nella funzione didattica; è esattamente il
contrario. Invece, lei, ministro, anche con altre misure adottate, ha lasciato
l'impressione di volere varare provvedimenti per eliminare una pletora di
insegnanti e di ricercatori, quasi fossero un costo, e non una risorsa.
Rappresentavano, non un patrimonio ma un elemento di cui, per così dire,
sbarazzarsi al fine di rendere più efficiente il sistema.
Sicuramente, considerate le politiche di finanziamento che il suo Governo ha
attuato tra il 2001 ed il 2003, con i tagli alla ricerca, il blocco delle
assunzioni, i tagli al finanziamento del fondo ordinario, tale misura era
qualcosa di più di un'idea; era praticamente la sua concreta politica.
Registro positivamente, però, come, nell'ultima finanziaria, sul piano dei
finanziamenti, si sia registrata una inversione di rotta. Anche ciò costituisce
un segnale che valuto positivamente; dovrà semmai spiegarci come si sia
verificato questo suo parziale ravvedimento. Infatti, dal punto di vista sia
finanziario che delle proposte presentate la settimana scorsa, sembra che la sua
posizione nei confronti dell'università sia una riflessione in cammino e che
rispetto ad una certa rigidità maturata per tre anni - che ha portato allo stand
by di oggi - vi sia invece la convinzione che qualcosa si possa rivedere.
Si pone dunque un problema per 20 mila ricercatori; su ciò, la nostra proposta,
come Democratici di sinistra - analogamente ad altre forze dell'opposizione - è
stata fin da subito l'istituzione di una terza fascia ovvero un pieno
riconoscimento del ruolo docente dei ricercatori.
Va in questa direzione il Governo? È questo che ci vuol dire, quando afferma che
il modo con cui è stato risolto, nel precedente disegno di legge, il problema
dei ricercatori, è la messa ad esaurimento del loro ruolo? Se è così,
registriamo positivamente il fatto che il Governo ha cambiato idea ed ha accolto
indicazioni che provenivano dall'opposizione, da alcuni colleghi della
maggioranza, dal coordinamento nazionale dei ricercatori, dei dottori di ricerca
e dei docenti universitari, che si sono espressi contro la soluzione della messa
ad esaurimento del ruolo dei ricercatori, previsto nel disegno di legge
ordinaria. Se si va in tale direzione, discutiamone. Vorremmo capire, tuttavia,
sulla base di quale testo, sulla base di quale indicazione avviene ciò, perché è
ambigua la formulazione che ci viene sottoposta.
La nostra università sicuramente ha un problema di invecchiamento del corpo
docente e, quindi, vi è l'urgenza di una massiccia immissione in ruolo di
giovani studiosi. Ciò è possibile attraverso lo snellimento delle procedure
concorsuali, ma anche - ed è una nostra proposta - attraverso la subitanea
immissione in ruolo di circa 5-6 mila giovani ricercatori, studiosi e docenti,
che rappresentino una reale risposta al problema che ha costituito un vero e
proprio «tappo» nella formazione e nella funzione del sistema universitario
italiano, per cui un'intera
generazione attualmente si trova fuori dal sistema universitario stesso.
L'università italiana perde il sapere, l'esperienza, la passione, la conoscenza
di un'intera generazione. C'è bisogno di giovani. Ciò rispetto anche alla
questione della «fuga di cervelli», che sarebbe troppo ampio riprendere in
questa sede.
Allora, se tutti riconosciamo che l'invecchiamento del corpo docente e del corpo
ricercatore delle nostre università è un problema, attiviamoci per un piano
straordinario che consenta alle giovani generazioni di entrare all'interno
dell'università.
Anche il modo in cui è stata risolta la questione dei concorsi, per noi non è
soddisfacente, dal momento che si tratta di una modalità che ripristina,
anzitutto, il vecchio criterio del centralismo ministeriale nella definizione e
decisione circa i posti da mettere a concorso, e che, inoltre, riporta un
elemento di dirigismo centralista, fortemente lesivo del principio
dell'autonomia. Allo stesso tempo, riconosciamo che, così com'è stata gestita e
si è strutturata, negli ultimi anni, la riforma delle procedure concorsuali ha
generato anche quelle forme di localismo che rappresentano uno tra i problemi
della nostra università. La domanda è: a quel localismo, che ha avuto comunque
un effetto benefico e positivo, consentendo di mettere a concorso una
moltitudine di posti, dopo che - tra gli anni Ottanta ed il 1996 - si era
assistito all'immobilismo più totale, con tre concorsi banditi in 16 anni, come
si risponde?
Siamo pertanto disposti a discutere delle storture e del localismo, ma
riacquisendo l'idea che, attraverso l'autonomia e i concorsi decentrati, si
mantiene quella capacità di risposta territoriale e di efficacia, con maggior
controllo da parte della comunità scientifica nazionale, con l'immissione di
docenti europei di chiara fama nelle commissioni e con l'eventuale possibilità
di eliminare la doppia idoneità, che ha rappresentato uno tra gli elementi di
gestione localistica del sistema.
Stiamo ragionando su questo? Sono temi che noi abbiamo portato e riportato - e
riporteremo - all'attenzione della Commissione e del Governo.
Se c'è questa disponibilità - e concludo, signor Presidente - si tratta di
capire quali sono le forme migliori per arrivare ad un risultato utile,
innanzitutto, per l'università italiana. Ritengo che la forma migliore sia un
rinvio in Commissione.
Signor Presidente, i temi (non li ho elencati tutti, perché non ne avevo il
tempo) che saranno oggetto di revisione emendativa, riguardano praticamente
l'intero articolato. Allora, allo stato attuale, non sappiamo di quale testo
stiamo discutendo. In Commissione abbiamo licenziato un testo su cui, però, il
ministro ha già detto che vuole intervenire: la cosa migliore sarebbe ritornare
in Commissione, anche in tempi limitati. Si tratta, peraltro, di una sede
trasparente, mentre il Comitato dei nove è una commissione tecnica di lavoro,
che predispone i testi per l'Assemblea. È la Commissione nei suoi pieni poteri
il luogo della rappresentanza, del confronto e del dibattito. A nostro giudizio,
pertanto, sarebbe importante rinviare il provvedimento in Commissione (Applausi
dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita,
DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Bimbi. Ne ha facoltà.
FRANCA BIMBI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevoli colleghe, signor
ministro, ci piacerebbe sapere di quale provvedimento stiamo discutendo, poiché
non siamo sicuri di saperlo. Soprattutto, cominciamo ad essere amareggiati per
non aver svolto un dibattito che poteva essere costruttivo su un tema
importante.
Vedendo il fallimento del Governo e della maggioranza che si delinea su questo
provvedimento, che non ha niente di moderno, che non va nella direzione
dell'Europa e neanche del resto del mondo sviluppato, credo che sull'università
l'opposizione
debba parlare di più al paese. Condivido pienamente gli interventi svolti finora
dal presidente Violante e dalla presidente del gruppo dei Democratici di
sinistra-L'Ulivo in Commissione e, quindi, non ripeterò quelle argomentazioni.
Il tema della riforma dello stato giuridico dei professori universitari riguarda
il reclutamento dei docenti, la progressione in carriera, la loro valutazione.
Tutto ciò deve essere riferito al quadro europeo internazionale dello sviluppo
dell'istruzione superiore e della ricerca scientifica e alla competizione per
l'innovazione tecnologica che sostiene la competitività economica nei diversi
paesi e sistemi socio-politici.
Il provvedimento sui diritti e doveri dei docenti e sulle regole per il loro
reclutamento dovrebbe inserirsi in una prospettiva di obiettivi strategici per
il sistema universitario, volti ad affrontare tre fenomenologie evidenti da
almeno un decennio: la rilevanza dell'intensità e della velocità
dell'innovazione tecnologica per la competitività economica, la crescita della
domanda d'istruzione in tutti i ceti sociali, la crescita dei consumi di beni ad
alta intensità tecnologica in tutte le classi di età per motivi professionali,
culturali, di tempo libero, di salvaguardia della salute, di qualità della vita
quotidiana.
Inoltre, in Italia, comparativamente ad altri paesi europei (si vedano il Regno
Unito, la Svezia, la Germania), la mobilità di carriera, intesa come passaggio
da una posizione sociale ad un'altra via occupazione, è minore, sia a causa del
peso dell'origine sociale sulla scelta della facoltà e sugli avanzamenti nella
professione, sia per la scarsa selezione meritocratica negli impieghi.
Questa rigidità demeritocratica riguarda anche una parte della classe dirigente
formata nelle università italiane. Dunque, i cambiamenti in atto corrispondono
ad altrettante sfide per le università e per il paese. Se le nostre risposte non
saranno all'altezza delle sfide, il rischio del declino da molti temuto diventa
reale.
Occorre un corpo docente di qualità, altamente motivato, in una comunità
scientifica consapevole delle sue funzioni sociali e capace di interpretare le
diverse tipologie di domande e di formazione superiore.
Questo è l'elemento centrale per la realizzazione degli obiettivi di cui abbiamo
parlato e della continuità nel tempo dei programmi di sviluppo scientifico e di
trasferimento tecnologico, che devono chiaramente essere identificati a livello
politico - cosa che non avviene - secondo differenti responsabilità, in maniera
condivisa con le università e le altre istituzioni della ricerca, nonché con gli
attori economici e sociali del territorio.
Questa prospettiva tiene conto anche di una forte differenziazione già in atto
nel sistema universitario italiano. La differenziazione è dovuta ad aspetti
positivi, come le diversità legate alle differenti vocazioni scientifiche
consolidate negli atenei, all'investimento nella produzione di nuovi profili
professionali - da cui la nascita di molti nuovi corsi di laurea - o nella
produzione di ricerca scientifica di punta di base applicata, all'individuazione
di rapporti preferenziali con la ricerca privata e con il sistema delle imprese
nel territorio, allo sviluppo di master di primo e di secondo livello
particolarmente efficaci sul piano dell'occupabilità, alla presenza di scuole di
dottorato ad alta integrazione internazionale e allo sviluppo di esperienze di
eccellenza.
I processi di differenziazione, tuttavia, hanno anche dei lati negativi, tra i
quali soprattutto l'espansione di offerte formative inefficaci sia rispetto alla
qualità scientifica e di profili professionali, sia dell'occupabilità. Ciò
avviene in parte, ma non solo, a causa della nascita di iniziative, che non sono
state selezionate in tempo, contraddistinte dalle più varie contingenze esogene
o endogene, dai corsi di laurea agli atenei che nascono privi di requisiti o con
requisiti scientifici e didattici piuttosto incerti.
È indubbio che il sistema nel suo complesso manchi di elementi coerenti di
regolazione. Quest'ultimo elemento può indurre alcuni ad essere pessimisti e a
propendere per l'azzeramento di tutte le
tipicità del sistema, come sembra fare il provvedimento in esame. Altri, invece,
cercano di mantenere lo status quo, anche se mascherato da trasformazioni
gattopardesche.
La nostra prospettiva è totalmente diversa: essa potrebbe riassumersi
nell'espressione «talenti, tecnologia e tolleranza», cui molti oggi si
richiamano, con l'avvertenza che per noi coltivare talenti significa sottrarre
prima di tutto i bambini e le bambine a destini predeterminati dallo scarso
capitale sociale della famiglia di origine; che puntare sulla tecnologia implica
anche che essa abbia una declinazione redistributiva (le tecnologie per
migliorare la vita quotidiana di tutti) e una destinazione di cittadinanza (le
tecnologie per cittadini capaci di giudizio nei dilemmi etici sottesi agli usi
tecnologici); che la tolleranza richiede un ambiente amichevole rispetto alle
differenze culturali e un'apertura senza preconcetti verso la ricerca
scientifica.
In questo quadro, intendiamo scommettere sulla possibilità di governare la
differenziazione del sistema universitario italiano, puntando all'integrazione
tra processi di inclusione sociale e alla selezione meritocratica dei talenti,
alla complementarietà tra ricerca e trasmissione del sapere, all'integrazione
tra la competizione per l'eccellenza nell'avanzamento della conoscenza gratuita
e l'ottenimento della migliore performance in ricerca e sviluppo. Per questo,
riconosciamo anche i processi di differenziazione del sistema universitario
italiano dal punto di vista delle criticità viste rispetto alla convergenza
europea e all'internazionalizzazione della ricerca.
L'ampliamento dell'offerta didattica nei tre livelli della laurea, della laurea
specialistica e del dottorato, riconosciuti dall'incontro di Berlino, dei master
di primo e di secondo livello, ha prodotto un aumento delle iscrizioni, dell'occupabilità
dei laureati e degli specializzati post lauream - come ci dicono i dati
pubblicati annualmente da AlmaLaurea - e del legame con le domande del
territorio.
Tuttavia, il rapporto tra iscritti e coorti d'età giovane è ancora troppo basso.
Vi è un implicito ma efficace scoraggiamento dei meritevoli privi di mezzi, vi
sono troppi iscritti a facoltà professionalmente ridondanti e troppo pochi
iscritti alle facoltà scientifiche delle scienze di base. Inoltre, sono troppo
pochi i laureati in tempo legale, anche se la riforma della didattica comincia a
dare alcuni risultati, e pochissimi dottori di ricerca. Tali strozzature,
inoltre, sono differenziate per genere: le ragazze hanno un miglior rendimento
scolastico, ma soffrono di segregazione formativa ed occupazionale. La loro
eccessiva presenza nelle facoltà più deboli dal punto di vista dell'occupabilità
è una, anche se non la sola, ragione del livello così basso dell'occupazione
femminile in Italia, a sua volta aspetto non secondario del livello dei tassi di
disoccupazione della popolazione.
Il quadro delineato solleva la necessità di affrontare, in un modello coerente
di riforma, il tema dello stato giuridico, del reclutamento e della progressione
in carriera dei professori universitari. Occorre occuparsi della formazione
scientifica nella scuola superiore, mentre oggi fuggono gli iscritti dagli
istituti tecnici, come ci ricorda Il Sole 24 Ore proprio nella giornata odierna.
Occorre occuparsi dell'organizzazione dell'offerta didattica della docenza,
della governance degli atenei e del loro finanziamento, della vocazione e della
dislocazione dei medesimi. Occorre tenere insieme la crescita dell'alta
formazione e delle scuole di dottorato con quella della scolarizzazione
universitaria di base e specialistica, considerando la seconda un presupposto
non solo quantitativo della prima.
Ciò implica anche un'organizzazione dell'insegnamento centrato su un buon
tutorato e sull'entrata di giovani docenti piuttosto che sulle attuali gerarchie
accademiche, uno sviluppo dell'offerta didattica part time per gli studenti
lavoratori ed una diffusione della formazione a distanza di qualità.
Ricordiamo, soprattutto, che è quasi impossibile essere un buon docente senza
fare ricerca. Quindi, la valutazione della ricerca dei singoli studiosi, non
solo delle
strutture degli atenei, va considerata il presupposto per la
responsabilizzazione di tutti anche rispetto alla scelta del personale per la
ricerca e per la didattica, dunque anche rispetto alla configurazione delle
selezioni e dei concorsi universitari.
Affrontando direttamente il tema della selezione della docenza, non ci pare
proponibile un ritorno a procedure nazionali di valutazione, innanzitutto perché
basta guardarsi intorno nell'Europa e negli Stati Uniti: la valutazione viene
fatta vicino alle strutture di ricerca, non travalicando le decisioni delle
strutture stesse. Quindi, il ritorno all'idoneità nazionale contravviene al
livello ormai consolidato dell'autonomia degli atenei. Se si imposta la
governance del sistema, la sua valutazione ed il suo finanziamento in base ai
risultati della valutazione non si possono che lasciare le scelte di
reclutamento e di progressione in carriera alle responsabilità locali. Se le
scelte locali ricadranno su un personale scadente, le strutture e,
conseguentemente, gli atenei devono poter essere penalizzati nelle risorse
economiche di personale. Allo stesso modo, dovrebbe essere penalizzata la
progressione del docente nella carriera e nelle retribuzioni.
Riteniamo che tale impostazione richieda il rafforzamento meritocratico dei
criteri di selezione; una definizione chiara per linee generali - da demandare
poi ai regolamenti di ateneo - dei diritti e dei doveri dei professori, a
partire dalla libertà e dall'obbligo di progredire nella ricerca, di
confrontarsi con standard internazionali; uno stato giuridico unico per tutte le
fasce dei professori; un maggior peso da dare alla valutazione dei risultati
della ricerca dei singoli, cosa che non si riesce a fare neanche attraverso il
nuovo sistema del comitato nazionale per la valutazione della ricerca; la
separazione chiara del reclutamento dalla progressione di carriera; un modello
di garanzia e di sicurezza sociale per i contratti post-doc.
Riteniamo indispensabile riconoscere realmente la necessità del titolo di
dottore di ricerca, per l'accesso alla carriera universitaria, pur ammettendo
che esso possa essere conseguito anche attraverso percorsi differenti da quelli
attuali. Ciò significa che i contratti a tempo determinato stipulati dalle
università debbono distinguere chiaramente tra gli esperti ingaggiati a vario
titolo, e normalmente non indirizzati alla carriera accademica, e i dottori di
ricerca, che dovranno essere prioritariamente considerati per le valutazioni di
accesso alla docenza, come del resto avviene in tutto il mondo.
Nelle università italiane oggi circa 50 per cento della docenza è già coperta da
forme di contratto a tempo determinato non valutate, riguardanti esperti a vario
titolo e i pochi dottori di ricerca che produciamo. Da noi, da un punto di vista
giuridico, anche se de facto la situazione sta cambiando, il dottorato di
ricerca non costituisce un prerequisito necessario per l'accesso alla docenza.
Questa distorsione, unita allo scarsissimo riconoscimento economico dei periodi
post-doc e all'insicurezza della possibilità di entrare e progredire in tempi
ragionevoli nella carriera, costituisce la differenza più eclatante del sistema
di reclutamento dei professori universitari italiani, di cui il disegno di legge
in oggetto non si occupa. Il reclutamento è strozzato dal localismo nel momento
dell'accesso al dottorato, mentre l'enfasi sulla differenziazione gerarchica per
età, e talvolta non per merito, è accentuata dal fatto che è la permanenza
nell'insegnamento alla fine in una stessa università, piuttosto che la qualità
valutata della produzione scientifica, a costituire un titolo per l'avanzamento
di carriera.
Queste riflessioni sostanziano una proposta che vorremmo discutere nel
Parlamento e nel paese: la proposta di un ruolo unico per i professori, al quale
si dovrebbe accedere con un sistema di tenure track alla fine del post
dottorato, cioè con la previsione di un budget di bilancio dopo la valutazione
del post dottorato, in un tempo massimo di quattro o cinque anni - perché questo
è il tempo massimo in cui si è valutati per avere una tenure ad Harvard -, ed in
cui la distinzione per fasce e la progressione della carriera siano legate alla
produzione scientifica valutata e per la quale gli incentivi differenziali
dipendano dalla qualità della ricerca e ricadono anche sulla valutazione delle
strutture. Questo dovrebbe poter essere messo sul tappeto, superando anche le
sterili sacche del dibattito sui concorsi nazionali o locali e sui loro
risultati. Dappertutto, le fasce di professori sono almeno tre e certo noi,
anche per la nostra configurazione costituzionale, dovremmo mantenere quella di
professore ordinario come fascia apicale.
Per fare una riforma efficace occorre considerare realisticamente i tre fattori,
dei quali parlava la collega Grignaffini, che pesano attualmente sulla struttura
e sulla composizione del corpo docente: l'età del personale del ruolo; la
distorsione data dal non riconoscimento delle funzioni di professore alla gran
parte dei ricercatori che svolge regolarmente corsi e moduli didattici; la
mancanza drammatica di posti a tempo indeterminato destinati a giovani studiosi
con titolo di dottore di ricerca. L'azione del Governo dovrebbe affrontare il
tema del reclutamento delle carriere dei professori in questo quadro. Invece,
essa sembra decisamente orientata a favorire il declino del sistema
universitario, soprattutto delle università statali, con interventi frammentari
quanto a punti di applicazione, ma conseguenti quanto a direzioni.
Il soffocamento dell'autonomia universitaria (richiamando le decisioni relative
all'organizzazione dell'offerta didattica, le spese per il personale, le
procedure di selezione dei docenti), con la previsione di università sotto casa
o ad personam, prive di caratterizzazione sul piano scientifico, ridondanti sul
piano dell'offerta formativa (che vanno ad incidere sugli scarsi mezzi da
ridistribuire, con corpo docente spesso occasionale o, comunque, ridottissimo),
incongruenti anche rispetto alle necessità dello sviluppo del territorio, o di
università telematiche, quasi prive di corpo docente, senza alcun riferimento
alla ricerca, rientra in una politica che ha coagulato la protesta molto forte
attorno a questa proposta del Governo che dovrebbe essere centrale nelle sue
scelte.
Oltre alla protesta dei ricercatori, degli idonei senza presa di servizio, dei
titolari di contratti, assegni e borse a vario titolo, impegnati in ricerca e
didattica, anche i documenti approvati dalla conferenza dei rettori, dal CUN e
dalla conferenza dei presidi si sono espressi chiaramente contro la messa ad
esaurimento del ruolo dei ricercatori e per il riconoscimento ad essi del ruolo
di professore di fatto ricoperto in base alle funzioni, per il mantenimento
della differenza tra tempo pieno e tempo definito, per una riforma dei concorsi
che preveda la netta distinzione tra reclutamento ed avanzamento in carriera,
riconoscendo che il provvedimento del Governo, invece, mortifica l'università
pubblica, rinnega l'autonomia universitaria, precarizza la docenza e disconosce
il ruolo dei ricercatori.
Non si può - così hanno sostenuto i rettori - riformare l'università, procedendo
per frammenti, invece di rifarsi ad un progetto organico e ciò assieme al CUN e
al coordinamento delle conferenze dei presidi di tutte le facoltà italiane.
Vorrei ricordare anche un'altra urgenza che rimane sullo sfondo. Siamo arrivati
circa al 7 per cento dell'incremento del fondo di finanziamento ordinario, ma
senza una programmazione della priorità degli interventi e mancando gli
incrementi annuali del fondo di finanziamento ordinario stesso, che non
dovrebbero essere inferiori al 10 per cento per allineare il sistema
universitario italiano a quello internazionale ed europeo in particolare.
Questo è il quadro su cui si inserisce l'intervento del Governo e della
maggioranza e queste sono, invece, le linee di riforma su cui proponiamo di
discutere nel Parlamento, nelle università e nel paese (Applausi dei deputati
del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Martella. Ne ha facoltà.
ANDREA MARTELLA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor ministro, stiamo
svolgendo questa discussione sulle linee generali del disegno di legge per il
riordino dello stato giuridico dei professori
universitari in una situazione davvero paradossale. In aula, come è stato detto
poco fa, ci siamo solamente noi. Non ci sono i colleghi della maggioranza di
centrodestra; solo noi stiamo partecipando alla discussione, mentre le aule
delle università, i rettorati, proprio in queste ore, sono occupati dalle
proteste, dalla mobilitazione che sta interessando tutte le componenti
universitarie.
Ciò è paradossale, perché ad oggi non sappiamo quale sia il testo che dobbiamo
discutere; non conosciamo il testo degli emendamenti del relatore, cui prima si
è fatto riferimento, e quelli del Governo.
Manca il parere della Commissione bilancio della Camera dei deputati che ha
steso un primo testo, con molte osservazioni e critiche puntuali. Certo,
conosciamo l'articolato approvato dalla Commissione. Alla suddetta abbiamo dato
un nostro motivato parere contrario, chiedendogli di ritirare il testo per
riesaminarlo in maniera approfondita. Alla fine poi il testo è stato emendato;
abbiamo presentato alcune nostre proposte che sono state puntualmente respinte
ed oggi, in qualche modo, ci vengono ripresentate come intenzioni e non ancora
come norme, dal momento che non conosciamo il testo di eventuali emendamenti.
Vale la pena di ricordare che non sono due anni che si discute di questo testo,
in quanto è vero che la discussione è iniziata il 25 giugno 2003, ma poi è stata
interrotta su iniziativa del Governo nonostante la richiesta del nostro gruppo
di scorporare e accelerare l'iter delle proposte riguardanti l'istituzione della
terza fascia dei professori universitari quale condizione irrinunciabile per un
eventuale progetto di riordino più complessivo. L'esame è ripreso il 16 marzo ed
è proseguito con una serie di audizioni, fino alle sedute del 31 luglio e del 30
settembre con il rinvio della votazione del mandato al relatore per mancanza del
parere della Commissione bilancio; ci siamo poi ritrovati il 17 febbraio, quando
si è votato il mandato al relatore (votazione alla quale non abbiamo
partecipato).
Nel frattempo vi è stata una grande mobilitazione in quasi tutti gli atenei
contro questo disegno di legge che la comunità universitaria, in tutte le sue
componenti, ritiene sbagliato ed inefficace, persino dannoso se dovesse essere
approvato.
Si tratta di una critica molto forte, con manifestazioni in moltissimi atenei,
che condurrà ad uno sciopero il prossimo 2 marzo e a diversi incontri - anche la
Federazione Uniti nell'Ulivo ne avrà uno domani - con una delegazione delle
varie componenti universitarie.
Lei, signor ministro, intanto ha dichiarato alla stampa e in più sedi anche
istituzionali, come la CRUI e il CUN, di voler modificare il contenuto del
disegno di legge. Dunque, dopo nostre pressanti richieste, si è presentata in
Commissione fuori tempo massimo, lo scorso 17 febbraio, affermando che alcuni
problemi relativi al blocco delle assunzioni e ai finanziamenti necessari sono
stati superati con la finanziaria per il 2005, dichiarandosi disponibile a
modificare il testo in cinque direzioni, che tuttavia restano delle mere
intenzioni dal momento che non disponiamo di testi sui quali poter ragionare.
Insomma, lei è venuta a dirci che aveva cambiato opinione, che i provvedimenti
diventeranno due, uno di legge delega e uno di legge ordinaria, e che esiste un
nuovo testo della riforma dello stato giuridico che però solo lei conosce e che
nessuno ha ancora visto. Così, muta anche la natura costituzionale e l'oggetto
stesso del provvedimento istruito dalla Commissione, mentre l'Assemblea non sa
ancora su cosa dovrà deliberare. Signor ministro, si tratta di un comportamento
davvero poco corretto e lesivo delle prerogative e delle procedure del
Parlamento.
Riteniamo dunque opportuno riaprire l'iter in Commissione, vedere finalmente gli
emendamenti formalizzati dal relatore e dal Governo per poterli subemendare. E,
anche per quanto riguarda le soluzioni che lei, signor ministro, ha affermato di
aver trovato con la finanziaria per il 2005, vorrei ricordarle che in realtà le
università nel triennio 2002-2004 hanno ricevuto complessivamente solo 109
milioni di euro
in più rispetto al finanziamento del 2001 e che l'aumento di 338 milioni di euro
del fondo di finanziamento ordinario, disposto con la legge finanziaria per il
2005, non compensa i tagli del precedente triennio a spese della scuola e della
ricerca. In ogni caso, non è vero che i problemi sono esauriti, dal momento che
la Commissione bilancio non ha ancora espresso il parere di sua competenza.
Allo stesso modo, per quanto riguarda le assunzioni, vi è un nuovo blocco dei
concorsi per tutto il personale universitario. Ad appena un mese dallo
sbandierato sblocco delle assunzioni lei, signor ministro, prima con motivazioni
pretestuose, ha rinviato di oltre sei mesi le elezioni per le commissioni di
nuovi concorsi, poi con una semplice nota, ha sospeso di fatto sine die tutti i
concorsi nelle università, tanto per il personale docente quanto per il
personale tecnico-amministrativo, per i rapporti sia a tempo determinato sia a
tempo indeterminato.
Il provvedimento è a nostro avviso illegittimo e rischia di compromettere il più
elementare funzionamento delle università. Eppure, riteniamo che la riforma
dello stato giuridico dei professori universitari sia urgente e non più
procrastinabile; è assolutamente necessario completare l'architettura della
riforma universitaria.
Questa riforma finora ha investito gli atenei, ponendo al centro di essi
l'autonomia, che si è dispiegata dapprima sul terreno organizzativo e
finanziario, poi su quello degli ordinamenti, attraverso l'autonomia didattica,
e che oggi deve necessariamente completarsi con la piena attuazione del processo
di valutazione e l'aggancio ad essa dei meccanismi di finanziamento. Il quadro
dell'autonomia, dunque, deve necessariamente concludersi con la realizzazione di
un nuovo ed adeguato stato giuridico dei docenti. Esiste, infatti, una stretta
relazione tra tali riforme e lo stato giuridico dei docenti, e quest'ultimo non
può essere considerato una variabile indipendente sulla quale intervenire
trascurando ogni raccordo con l'autonomia del sistema nei suoi diversi aspetti.
Questa riforma è necessaria, perché l'attuale ordinamento risale al 1980: sono
trascorsi 25 anni, durante i quali sono intervenuti numerosi cambiamenti. Vi è
stata l'esplosione della domanda di istruzione superiore (oggi oltre il 50 per
cento dei diciannovenni si iscrive all'università); è in atto un processo di
innovazione e riorganizzazione complessiva dei saperi; è intervenuta l'autonomia
degli atenei; è intervenuta la riforma del reclutamento; è intervenuta la
riforma degli ordinamenti didattici.
Si tratta, dunque, di una riforma urgente e necessaria per superare gravi e
annose anomalie del nostro sistema universitario, alle quali ha fatto
riferimento l'onorevole Grignaffini e su cui non intendo ritornare. Cito
l'esistenza di 20 mila ricercatori senza stato giuridico; l'invecchiamento del
corpo docente (nelle nostre università è presente uno dei corpi docenti più
vecchi d'Europa); la mancata ridefinizione della materia dei diritti e dei
doveri dei professori nell'università dell'autonomia; l'assenza di un adeguato
sistema di valutazione. Lo stato giuridico vigente è dunque superato e sono
necessarie tali innovazioni.
In un appello firmato da oltre 1.500 docenti universitari, intitolato «Diamo
voce alle università», si sostiene che occorre stabilire doveri e diritti di
ciascun docente in un sistema di università autonome, recuperare il senso di una
carriera basata sul merito, premiare l'impegno di chi sceglie di dedicarsi
esclusivamente all'attività universitaria, attrarre ed inserire nella carriera
accademica i giovani migliori, tenendo sempre presente che la ricerca e la
didattica sono le funzioni primarie di ogni ateneo e che la loro copresenza
costante caratterizza l'università. Guardando ad altri paesi, è facile
accorgersi che la contrattualizzazione selvaggia e senza prospettive proposta
dal Governo non corrisponde affatto a modelli stranieri di successo e,
soprattutto, non garantisce di vedere migliorare il funzionamento
dell'università italiana né sul piano scientifico, né su quello didattico. Si
tratta di un appello firmato da migliaia di docenti che non è stato preso,
purtroppo, in alcuna considerazione.
Il disegno di legge, dunque, è necessario ed urgente, ma il Governo ha scelto,
sia nel metodo sia nel merito, una strada sbagliata. Quanto al metodo, abbiamo
avanzato critiche formali e procedurali sull'adozione dello strumento della
delega. Tali critiche sono state formulate anche da tutte le rappresentanze del
mondo universitario, dalle organizzazioni sindacali al CUN, con particolare
nettezza dalla CRUI, che ha dichiarato di ritenere indispensabile l'adozione
dello strumento della legge ordinaria anziché della legge delega, nell'assemblea
svoltasi il 4 febbraio scorso. Si tratta di uno strumento istituzionalmente
improprio per la materia, stante la rilevanza costituzionale dello stato
giuridico della docenza universitaria. Esso rende impossibile, per il fatto
stesso di non indicare le specifiche soluzioni e le effettive implicazioni della
riforma, un confronto parlamentare ed allunga i tempi di attuazione, rinviando
la normativa di dettaglio e l'entrata in vigore della riforma ai successivi
decreti delegati, il cui iter è particolarmente lungo e complesso.
L'efficacia di una riforma si valuta con riferimento alla sua capacità di
affrontare e risolvere i problemi del settore. La riforma proposta dal Governo,
invece, non risolve e non affronta alcuno dei problemi dell'università italiana:
non definisce lo stato giuridico di 20 mila ricercatori, ma ne abolisce la
stessa figura, inserendoli in un ruolo ad esaurimento con il titolo poco
gratificante di «professore aggiunto», assimilandoli ai tecnici laureati (gli
antichi assistenti), disconoscendo la pienezza della funzione docente ed
imponendogli, senza aumenti stipendiali, incarichi di insegnamento nei soli
corsi di laurea di primo livello.
Non rende più stringente la disciplina del tempo pieno, del tempo definito, ma
la abolisce, così premiando, di fatto, i docenti meno impegnati nell'università
italiana. La nostra università rimarrà quindi l'unica al mondo a non prevedere,
come invece sarebbe normale, la figura del professore interamente dedicato
all'università.
Questo provvedimento non amplia né accelera il reclutamento dei giovani ma lo
ritarda, dilatando ulteriormente l'area del precariato col sicuro esito di
intensificare la fuga dei cervelli e prevedendo al tempo stesso il ritorno alle
antiche e rovinose pratiche dei concorsi riservati. Non ridefinisce i diritti e
i doveri dei professori nel contesto di una università profondamente mutata, né
configura - ed è questo un passaggio fondamentale - alcuna carriera
professionale della docenza fondata sulla valutazione periodica della
produttività scientifica e didattica. Eppure lei, signor ministro, parla spesso
di valutazione dei docenti e del sistema, ma della valutazione non v'è traccia
in questo provvedimento.
Questo provvedimento non responsabilizza gli atenei nella selezione e nel
reclutamento dei migliori docenti. Non prevede finanziamenti per una politica
incentivante della didattica, della ricerca e dei servizi per gli studenti. E
non c'è traccia di copertura finanziaria del provvedimento. Può essere mai
credibile, mi domando e le domando, signor ministro, una riforma dello stato
giuridico dei professori a costo zero?
Chiediamo davvero, ed è un appello che rivolgiamo seriamente al Presidente della
Camera, di poter riprendere seriamente la discussione in Commissione e di
poterlo fare in maniera aperta, con il tempo necessario, anche se vorremmo poter
svolgere questo lavoro nel tempo più rapido possibile pur cogliendo i risultati
che devono essere colti.
Presenteremo una serie di emendamenti - oltre a quelli già presentati ne
predisporremo degli altri, se sarà il caso - quando avremo conosciuto il testo
dei vostri emendamenti. Proporremo di istituire la terza fascia docente e
l'inquadramento in essa degli attuali ricercatori. E se ciò avverrà, dovremmo
ribadire con forza che è un risultato che giunge per il lavoro parlamentare e
per la mobilitazione che è in atto da molte settimane e da mesi nelle università
italiane. Proporremo un programma
straordinario per l'assunzione di almeno diecimila giovani studiosi nei prossimi
anni. Proporremo l'istituzione di un'agenzia nazionale di valutazione del
sistema universitario, con natura giuridica e poteri di authority, per la
valutazione periodica dei docenti, per la loro produttività didattica e
scientifica e per la valutazione degli atenei. Perché è solo questo il modo per
poter garantire equità, efficienza ed anche competitività del sistema
universitario. Proporremo una disciplina precisa dei compiti e delle
responsabilità dei professori. Proporremo una ridefinizione della disciplina del
tempo pieno, del tempo definito, con previsione della figura del professore
interamente dedicato al lavoro universitario.
Faremo ciò come sempre con molta serietà, con la consapevolezza che queste
modifiche devono essere introdotte perché vi sono richieste dal mondo
dell'università e perché rappresentano assolute necessità sulle quali bisogna
intervenire, tenendo conto dei problemi dell'università nel nostro paese. Ci
auguriamo che la maggioranza di centrodestra (che, per la verità, nell'ultima
occasione in Commissione si è resa conto di come fosse improvvisata questa
discussione in aula e ne ha chiesto il rinvio), il Governo ed il ministro
comprendano che la strada scelta è sbagliata, nel metodo e nel merito, e da essa
bisogna tornare indietro, prima che sia troppo tardi. Purtroppo l'azione del
Governo di centrodestra si è caratterizzata in questi anni per la totale assenza
di un disegno strategico nel quadro di quegli obiettivi che, da Lisbona in poi,
dovrebbero essere raggiunti.
Il nostro paese è indietro, sta colmando il suo divario con l'Europa e si è
caratterizzato per una serie di provvedimenti estemporanei e di emergenza che
determinano la progressiva destrutturazione del sistema universitario, la
ripresa di una linea burocratica e centralistica e lo svuotamento dell'autonomia
garantita agli atenei.
Quindi fermatevi, almeno rispetto a questo provvedimento; ascoltate la voce di
chi lavora, studia e vive nelle università; ascoltate la voce dei gruppi
parlamentari che, su questa materia, hanno svolto un lavoro approfondito e oggi
vi stanno proponendo degli emendamenti che, se accolti, vi permetteranno di
realizzare una riforma efficace ed incisiva, e non sbagliata e perfino dannosa
come quella che vi accingete a varare.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Acquarone. Ne ha facoltà.
LORENZO ACQUARONE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro,
sono un deputato di opposizione, ma il mio intervento sarà probabilmente un po'
diverso da quello dei colleghi che mi hanno preceduto. Vede, signor ministro,
non volevo quasi intervenire perché, a furia di sentir parlare di invecchiamento
dell'università, sulla base dei quarant'anni di cattedra che mi ritrovo, mi era
quasi venuta vergogna a prendere la parola in questa sede. Ma è tanto l'affetto
che nutro
per l'università, che ritengo di dovere intervenire, sia pure molto
brevemente attesa l'ora tarda, anzi, come disse un importante magistrato,
«attesa un'ora pericolosamente tarda».
Quindi, dirò qualcosa, riservandomi di intervenire in seguito durante l'esame
degli emendamenti, un po' per vezzo; pur essendo ormai da diciotto anni in
Parlamento, non ho mai voluto far parte della Commissione cultura, proprio
perché, probabilmente, avrei sentito troppo il gioco dell'appartenenza ad una
categoria, ma questa volta ho ritenuto che fosse mio dovere.
Prima di richiamare alcune considerazioni non spiacevoli ma sulle quali inviterò
a riflettere, vorrei sottolineare, come ho già detto all'amico relatore,
onorevole Mario Pepe, una cosa della quale mi rallegro, e cioè che tra i
princìpi generali sia stato previsto che l'università possa esser finanziata con
i fondi pubblici e privati.
Troppe volte abbiamo, infatti, lamentato una separazione tra la società civile,
come si dice oggi, e l'università: e ciò qualche volta è accaduto per colpa
nostra (odi profanum vulgus et arceo, ovvero il
vecchio accademico che non voleva essere disturbato) ed anche per la mancata
sensibilità di imprese alle quali, viceversa, a mio modesto avviso, bisognerebbe
rivolgersi di più per avere maggiori contributi. Tutti chiediamo soldi, li
chiediamo di continuo, sapendo però quali siano le finanze pubbliche, anche se
mi auguro che quest'anno il fondo ordinario possa essere di molto superiore
rispetto a quello degli anni precedenti.
Questo, quindi, a mio avviso, è un lato nettamente positivo, non solo per la
previsione dell'afflusso di denaro non pubblico, ma perché si tratta di un
incentivo a collegare università e mondo del lavoro, dell'impresa e dell'imprenditorìa,
specialmente in un momento di globalizzazione.
Detto questo, vengo al problema di fondo, che è quello del reclutamento.
Onorevole ministro, lei pensa, e probabilmente ritengo abbia buone ragioni per
pensarlo, che una riforma del sistema dei concorsi possa migliorare la forma di
reclutamento? Debbo confessarle che ci credo poco!
Ho fatto parte di commissioni di concorso all'epoca in cui erano coinvolti i
professori di tutte le discipline afferenti ad una facoltà; ho fatto parte di
commissioni elette con sorteggio... Ironia della sorte, si fece il sorteggio,
perché colui che allora veniva considerato un «barone» dell'università, e che ha
onorato i banchi di questa Assemblea per molti anni, il professor Tesauro, si
diceva che fosse talmente potente per cui tutti i concorsi di diritto
costituzionale e pubblico fossero dominati dalla figura di questo autorevole
collega. Dunque, venne effettuato il sorteggio: il primo nome estratto, come
lettera di diritto costituzionale, fu quello del professor Alfonso Tesauro: tale
sistema ha dato i peggiori risultati, perché chi veniva sorteggiato non era
assistito dalla stima della comunità scientifica, bensì da quella della sorte ed
ha cercato, quindi, a tutti i costi, di sistemare i propri allievi.
Ho fatto parte, poi, di commissioni miste, di quelle costituite in parte a
sorteggio e in parte per elezioni; non ho fatto parte, per ragioni di
incompatibilità, di quelle cosiddette localistiche né di quelle a tre o a due,
ma seguo abbastanza la materia. Su questo punto vorrei dire che l'università
italiana è di gran lunga migliore (mi riferisco alle discipline giuridiche di
cui mi onoro di far parte) rispetto a quello che si dice. Ho contatti frequenti
con tanti colleghi, specialmente con quelli dell'America latina, ma direi che se
qualcuno di voi andasse oggi nell'America del Sud scoprirebbe che quasi tutti
gli studenti, specialmente quelli dell'Argentina e del Brasile, studiano su
testi in lingua spagnola che riportano i nostri lavori.
Da questo angolo visuale la nostra università non merita il discredito
attribuitagli in questi ultimi tempi. Anche il nuovo sistema dipenderà molto
dalla qualità dei commissari, ed esso non può che avere un sistema di
cooptazione.
Il problema vero, e, quindi, la critica da rivolgere al sistema attuale dei
concorsi, é quello che essi sono stati banditi per più posti quando il
finanziamento era sufficiente per un solo posto; in questo modo si è creata una
forma di precariato universitario che in qualche modo deve essere sistemato.
Quello degli idonei non chiamati è un problema grave, così come lo è quello dei
ricercatori, anzi di più.
Da vecchio professore universitario, mi sono fatto un regalo: non sono voluto
andare in pensione proprio per consentirmi di andare tutti i lunedì
all'università a fare lezione. Ministro Moratti, i colleghi hanno giustamente
parlato della ricerca, ma, a mio parere, il vero problema è quello della
didattica. Molto spesso sono stati banditi concorsi per materie, per discipline
e per corsi di laurea con pochissimi studenti. Vi sono università dove,
specialmente per le materie del primo anno, se un professore si ammala si chiude
l'università. Di questo nella distribuzione dei fondi occorrerà tenere conto; in
particolare, bisognerà tenere in considerazione i cosiddetti punti di eccellenza
della ricerca scientifica, ma anche la didattica che é, a mio avviso,
fondamentale. Occorre, quindi, un numero adeguato di professori che consentano
di svolgere la didattica in maniera ottimale. Da questo punto di vista, da
vecchio professore universitario,
sono molto favorevole allo svecchiamento e all'impiego dei giovani nelle
università. Signor ministro, questa è la prima cosa che le chiedo; in questo
modo coloro che hanno vinto il concorso conseguendo l'idoneità saranno man mano
sistemati, ovviamente dove le facoltà lo richiedano perché ciò non deve
comportare una lesione dell'autonomia universitaria.
Nel nostro gergo si dice che «chi vince da fuori, forse è un po' più bravo di
quello per il quale è stato richiesto il concorso». Di bravi in cattedra ne
conosco molti, e di somari in cattedra, parlo per primo, ne conosco altrettanti!
Non è che tutti i professori universitari siamo dei geni.
PRESIDENTE. Onorevole Acquarone, si avvii a concludere.
LORENZO ACQUARONE. Concludo Presidente. Chiederei al ministro Moratti, avendo
anche ascoltato il collega relatore, onorevole Mario Pepe, che ha rappresentato
una certa disponibilità del rappresentante del Governo, di eliminare il
precariato che si è creato, ripeto, attraverso il numero di idonei non chiamati,
che non hanno preso servizio.
Mi auguro che con il fondo ordinario di quest'anno si possa giungere a questo, e
che si tenga conto nella distribuzione dei fondi non soltanto dell'eccellenza
didattica ma anche delle necessità didattiche perché vi sono materie che, ove
non insegnate, possono condurre alla chiusura degli atenei.
Onorevole ministro, mi riservo di intervenire in sede di esame delle proposte
emendative, ma non lo farò con spirito di parte, perché il mio affetto per
l'università è tale per cui non mi sentirò mai uomo di parte.
Ricordo un vecchio verso di D'Annunzio che mi pare reciti in questo modo: «fuor
d'ogni parte il buon giureconsulto». Lui lo diceva per uno che era morto; io mi
auguro di dirlo da vivo (Applausi).
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Titti De Simone, iscritta a
parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione
sulle linee generali.