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Umanistiche: Più che profetiche quelle parole sono attualissime

Opinioni
L’8 novembre 1979 Giuseppe Prezzolini aveva 97 anni, 9 mesi e 12 giorni. Mancavano oltre due anni e mezzo alla sua morte di centenario, e aveva la lucidità e lo spirito di un uomo nel pieno delle forze. Dal 1968 aveva scelto di vivere a Lugano, per stare in un luogo che non fosse l’amata/odiata Italia, con la sua detestata politica, ma dove si parlasse italiano. Amò quella città e quel Paese, dalla vita quieta e civile, tanto che proprio a Lugano destinò – si sa - il suo prezioso archivio e la sua biblioteca. Si sa meno che Prezzolini partecipò, fino all’ultimo, alle attività culturali della sua nuova patria: tanto che, appunto l’8 novembre 1979, tenne una conferenza (ma lui la volle chiamare «conversazione») nell’aula magna del liceo San Giuseppe.
Fu un atto di mecenatismo culturale, certo. Il migliore, quello in cui si dà se stessi, piuttosto che del denaro. Ma è altrettanto certo che il vegliardo era attratto anche dal tema della «conversazione», ovvero la passione furente e disillusa di tutta una vita: «Che cos’è l’Italia». Di lui sono memorabili articoli e libri, scritti nell’arco di ottant’anni, proprio sull’Italia e gli italiani, a partire da Codice della vita italiana (Edizioni della Voce, 1923, Robin 2003), La cultura italiana (Corbaccio, 1930), fino a L’Italia finisce, ecco quel che resta (Rusconi, 1981), al postumo L’italiano inutile (Rusconi 1983).
Il piccolo saggio-conversazione «Che cos’è l’Italia», invece, sarebbe rimasto sconosciuto se un luganese colto e amante del bello, il mio amico Giovanni Maria Staffieri, non fosse stato presente all’evento e non l’avesse registrato e trascritto con amore. Affidandomelo, poi, pochi giorni fa. Lo pubblichiamo in parte, fresco come appena detto, così attuale e dotto, pieno dell’amabilità – affatto dolciastra, anzi - che era dell’autore.
Lo storico e giornalista Mario Agliati, presentando Prezzolini all’auditorio («Evidentemente Prezzolini non si presenta...»), disse: «È un bel tipo, in quanto a questa virtù della cordialità naturaliter: è un uomo che ha la capacità di sedere alla tavola e mangiare con i più umili, con gli altri, che è una virtù da pochi». Il grande scrittore non voleva che lo si definisse uno scrittore né uno studioso: diceva di essere semplicemente un dilettante. È vero, nel senso che ha fatto solo le cose che gli piacevano, che gli davano diletto. Chi può dire altrettanto?
Per esempio, non ha mai votato. Né quando avrebbe potuto votare per Giolitti o per la scelta di vari presidenti americani, durante il lungo e volontario esilio negli Stati Uniti, o infine in uno di quei referendum che rappresentano la grande civiltà della Svizzera. Perché Prezzolini ero uno che non la beve, tanto che aveva fondato l’Accademia degli Apoti, ovvero «coloro che non le bevono», perché «la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque», come scrisse.
Aveva un altro vanto, Prezzolini, quello di non avere mai ricevuto uno stipendio dallo Stato italiano, se non quando prestò servizio militare nella Prima guerra mondiale, che aveva sostenuto con gli scritti, combattendo come sottotenente, tenente, capitano. Eppure era un nazionalista, così si etichettava anche la sua rivista
La Voce, ma di un nazionalismo che puntava a un ingrandimento morale, non territoriale. Una crescita che gli sembrò di non vedere mai, né durante il periodo liberale, né in quello democratico, per non dire del fascismo. Di conseguenza Prezzolini si sentiva in diritto, e lo era, di prendere a frustate noi, che considerò sempre suoi connazionali, il suo popolo.
Lo si vede bene dalla passione che mette in questo «Che cos’è l’Italia», dove ripercorre e sintetizza alcuni dei suoi temi preferiti: gli italiani che non hanno niente a che fare con gli antichi romani, a differenza di quanto ci piace sempre sottintendere; l’individualismo che è alla base del nostro carattere, per cui l’Italia non si è mai potuta costituire in nazione se non per «influsso straniero». La polemica di Prezzolini sul Risorgimento anticipa di decenni quella odierna: Mazzini che viene preferito a Cattaneo perché per lui «la politica dipendeva da Dio, cioè da un concetto di unità universale», mentre la strada giusta, indicata invano da Cattaneo, era quello della confederazione: «Questo Risorgimento è stato un vestito straordinario, un vestito non comune, messo sopra delle persone che non lo potevano portare».
Sono attualissime, e da riscoprire, le parole sul brigantaggio: «Voi non sapete», lo diceva agli svizzeri, ma poteva ben dirlo anche agli italiani, «che cos’era il brigantaggio! La guerra interna italiana, dopo che Garibaldi conquistò al prezzo di poche vite il Regno di Napoli, durò dieci anni, dal 1860 almeno fino al ’70, e costò molto di più della cifra di morti di tutto il Risorgimento. Questa guerra, chiamata del brigantaggio, era una guerra sociale e politica. Fondata su delle ragioni sociali profonde e fondata sull’aiuto dei poteri che ancora esistevano in Italia liberi, cioè il potere papale, le ambasciate di Spagna, che davano denaro a questi briganti. Questa storia, la storia del brigantaggio in Italia, è conosciuta da poche persone: non c’è un libro generale che racconti questa tremenda storia. L’Italia fu fatta con la forza. È una cosa delle più curiose della psiche umana. Pur di non avere la leva, il meridionale preferiva mettersi in campagna, andare con i briganti. Preferiva morire da brigante che fare il soldato».
Generalizzazioni? Sì, Prezzolini lo sa e non le teme, come spiega nel botta e risposta con il pubblico. Infatti poi non distingue – nato a Perugia – fra meridionali e settentrionali. Parla di «popolo italiano» e ci attribuisce una dote (più dell’intelligenza) che pochi ci riconoscono: una grande pazienza: «Lo vedete in questi giorni, che pazienza. Un altro popolo sarebbe insorto contro quello che accade in Italia oggi!». Nell’Italia del 1979 i misteri Moro e Sindona avevano fatto del Paese un malato in peggioramento; Brigate rosse, disoccupazione, inflazione non venivano frenati né dal protagonismo dei sindacati, né dalla debolezza dei governi. Proprio in quei giorni, a Cagliari infuriava il colera e all’università di Firenze una bomba feriva quattro studenti. «Ma il popolo italiano ha molta pazienza, troppa pazienza, poi qualche volta scoppia, si irrita. Ha ragione, ha perfettamente ragione poiché non c’è, probabilmente, altro che la forza che lo possa levare da una data situazione».
Temo che Prezzolini direbbe le stesse parole anche oggi.
 
di Giordano Bruno Guerri - ilgiornale.it








Postato il Martedì, 20 aprile 2010 ore 00:15:00 CEST di Filippo Laganà
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