Parrebbe
che uno dei frutti più gustosi delle elezioni regionali sia il
rilancio delle riforme istituzionali: in primo luogo del
federalismo, per ora fiscale poi chissà. C’è una legge che lo annuncia
da un anno, una commissione parlamentare che ci sta lavorando, uno
schieramento politico vincente pronto a partire e andare all’incasso.
Restiamo in attesa, sicuri che non saremo interpellati e abbastanza
scettici sull’esito finale dell’ operazione. di Francesco Scrima, (CISL Scuola)
IL FEDERALISMO E IL SUD - di Francesco Scrima, CISL Scuola
Parrebbe che uno dei frutti più gustosi delle elezioni regionali
sia il rilancio delle riforme istituzionali: in primo luogo del
federalismo, per ora fiscale poi chissà. C’è una legge che lo annuncia
da un anno, una commissione parlamentare che ci sta lavorando, uno
schieramento politico vincente pronto a partire e andare all’incasso.
Restiamo in attesa, sicuri che non saremo interpellati e abbastanza
scettici sull’esito finale dell’ operazione.
Di riforme istituzionali si parla invano da un trentennio, sul suo
altare si sono sacrificati le intelligenze più vive, le proposte più
ambiziose, gli inganni più sfacciati. All’ultimo minuto, qualcuno a
turno faceva saltare il tavolo avendo scoperto che il gioco non gli
conveniva. Temiamo sarà così anche stavolta. Invocare l’anima dei padri
costituenti della Repubblica suona velleitario e grottesco. Gli uomini
non sono gli stessi, e non è solo questione di facce ma anche di
cervelli e statura morale. Il paese non è lo stesso, poiché cominciano
a venire meno quei legami di appartenenza, solidarietà, storia che
fanno forte e fiduciosa una nazione e la spingono a riprogettare il
futuro.
Da questo punto di vista il federalismo - per altri versi salutare e
benvenuto: alzi la mano chi non vuole più chiare responsabilità per gli
eletti, più vicinanza delle istituzioni al territorio, più
vincoli agli sprechi e all’anarchia fiscale, più attenzione ai servizi
locali, più poteri sanzionatori per gli elettori- rischia di dare colpi
ulteriori a favore della “disunità d’Italia”, di allungare e sformare
ancora lo stivale, lasciando irrisolto il grande nodo del Sud che, ha
ricordato Mario Draghi, è “il territorio arretrato più esteso e
popolato dell’Unione europea”.
Lo diciamo da tempo come persone che operano nella scuola, ragionando
sulle periodiche tabelle di agenzie nostrane e internazionali che
vedono gli studenti meridionali ultimi per apprendimento, profitto,
sbocchi occupazionali e primi per bocciature, abbandono, dispersione,
carenza di basi formative. Queste statistiche però raccontano solo
parte della verità ignorando quello che costringerebbe tutti a risalire
alle cause di questa situazione: più bassi redditi familiari, meno
aule, minori opportunità culturali, maggiore disagio ambientale,
amministratori latitanti, incapaci o irresponsabili, e poi ministri
distratti o prevenuti, ecc. E’ scorretto ed esiziale usarle per
rivendicare il federalismo, con lo specioso argomento che non c’è
rimedio ai ritardi del Sud e tanto vale metterlo di fronte alle sue
colpe, sperando che rinsavisca.
Il federalismo – che non è una prescrizione medica né un destino
inevitabile– non è di per sé una cura. Non lo è sicuramente quel
federalismo di bassa lega che, rifacendosi a inconsistenti miti
identitari, propone per il personale della scuola forme di reclutamento
regionale che privilegiano gli indigeni o un po’ pseudoassimilati
con cinque anni di residenza in loco . Per servire a qualche cosa il
federalismo deve essere serio. Lo può essere solo se può giovarsi
di una classe politica onesta, che non moltiplichi centri di potere e
accaparramento delle risorse, e di comunità mature, che coltivino
attese eque e compatibili; se è animato da uno spirito di
coesione e di reciproco affidamento; se è davvero un nuovo “patto” ( è
questa l’origine della parola) di unione. In altri termini, un
federalismo “solidale, realistico e unitario” in grado di rafforzare
l’intero Paese, “rinnovando il modo di concorrervi da parte delle
diverse realtà regionali, nella consapevolezza dell’interdipendenza
crescente in un mondo globalizzato”. Un federalismo che, al contrario,
“accentuasse la distanza fra le diverse parti d’Italia sarebbe una
sconfitta per tutti”. Il richiamo, accolto da uno stordito silenzio, è
venuto qualche mese fa dalla CEI nel documento Per un paese solidale.
Chiesa italiana e Mezzogiorno, che è pure un pesante atto d’accusa
contro le inadeguatezze delle classi dirigenti meridionali, tetragone a
qualunque mutamento (“l’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti
delle province e delle regioni non ha scardinato meccanismi perversi o
semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica”) e un
appello a un più alto senso civico delle popolazioni perché diventino
artefici del loro riscatto.
Per la CEI un sano federalismo, ispirato alla visione autonomista di
Sturzo e Moro (condividiamo), sarebbe una sfida per il Mezzogiorno e
potrebbe risolversi a suo vantaggio, “se riuscisse a stimolare una
spinta virtuosa nel bonificare il sistema dei rapporti sociali,
soprattutto attraverso l’azione dei governi regionali e municipali, nel
rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai
cittadini, agendo sulla gestione della leva fiscale”.
Ma, ripetiamo, il federalismo fiscale non sarà sufficiente a sanare il
divario di redditi, occupazione, dotazioni civili, infrastrutturali,
produttive senza interventi pubblici straordinari e investimenti
privati supplementari; senza una lotta, convinta e unanime, alla
criminalità e all’emarginazione sociale.
In un simile contesto, la scuola dovrà condurre sino in fondo la
sua partita. Non potrà tirarsi indietro, invocando le insufficienze
altrui, dovrà evitare ogni tentazione di isolamento e ogni pretesa di
innocenza. Dovrà continuare a sporcarsi le mani, chiedendo analogo
impegno a tutti i soggetti. Come negli anni dell’uscita dal dopoguerra
in cui riuscì essere grande fattore di cambiamento, la scuola è
chiamata a riappropriarsi anche nel Sud della sua vocazione democratica
e liberatrice, di umile, indispensabile, operaia nella costruzione di
cattedrali che non marciscono nel deserto ma fecondano i territori
trasformandoli in luoghi di civiltà e di sviluppo.
I giovani saranno i nostri alleati, se è vero che a loro spetta di
essere i messaggeri e i testimoni di un nuovo Mezzogiorno.