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Umanistiche: ''IL CAVALIER DELLA LANCIA'' DI MARINELLA FIUME

Rassegna stampa
Alla cerimoniosa dedica dell’Autore a un Mecenate di tal fatta, seguono, secondo un costume del tempo, cinque scritti dedicatori in versi di maniera in onore dell’Autore: due epigrammi latini del patrizio catanese Carlo Gioeni, un componimento del gentiluomo catanese Giuseppe Munebria (o Munibria o Munabrea), segretario del Comune di Catania, noto per le serenate e le canzonette per musica e autore, tra l’altro, di una notissima “La Musa risvegliata” (G. Policastro, I Teatri del ‘600 in Catania, “Rivista musicale italiana”, fasc. III, IV, 1952, e Mira, Bibliografia siciliana, Bologna 1973, Palermo 1881, II vol.); il secondo è del patrizio catanese Francesco Morabito, accademico dei “Chiari”, tra le più illustri accademie catanesi del Seicento che annoverava tra i soci letterati, medici ed ecclesiastici (G. Policastro, cit. e M. Maylender, Storia delle accademie d’Italia, Bologna 1926-30, vol. II); l’ultimo di Giovan Battista Guarneri, segretario del Senato catanese, autore di commedie, tragedie e drammi sacri da lui arricchiti da musiche canti e danze e da una spettacolosa e complessa messa in scena, anch’egli socio dell’ accademia dei “Chiari” col nome di “Illuminato”. Gli insegnamenti forniti ai giovani dal Tedeschi onde coltivare un esercizio glorioso ormai trascurato hanno lo scopo di permettere loro di servirsene nelle sfide e nelle giostre, nei tornei e nei caroselli, nei giochi come quello della “sortiscia” (o sortita, spagnolismo da “sortija”) o del “correr all’Anello” e nei festeggiamenti militari. In linea con le regole della poetica allora in voga, lo scrittore si prefigge l’intento di insegnare dilettando e destando meraviglia attraverso tecniche descrittive ed invenzioni di immagini mutuate dalla teatralità barocca, che vedeva del resto nella stuttura urbana delle città isolane dominate dall’Impero spagnolo fastosi palcoscenici. Nelle accademie e nei teatri, la nuova sociabilità nobiliare, dominata dai toni di una grandiosa cerimonialità, rinverdisce in tal modo riti come quelli cavallereschi celebrati in Sicilia già dalla fine del XV secolo e, tra essi, le giostre e i tornei, particolarmente amati da un pubblico popolare che accorreva in massa ad assistervi. Ma il trattato si propone soprattutto di insegnare regole utili a difendere “l’honore”, la patria e l’autorità e maestà regia nei momenti di pericolo. E se si pensa agli avvenimenti turbolenti che incendiavano la Sicilia e Catania in questi frangenti, si capisce bene la necessità di proporre ai giovani rampolli del patriziato catanese, rammolliti da uno stile di vita fatto di lusso, feste e festini, un corso accelerato e un ripasso intensivo dell’arte in questione. Il magro raccolto granario, il rincaro del pane, le esose gabelle fanno sì che l’insurrezione dilaghi ovunque. A Catania si trovano dapprima affissi nei luoghi pubblici cartelli contro la nobiltà, quindi si appicca il fuoco nelle piazze ai documenti della corte civile e capitanale, infine i ribelli manifestano per l’abolizione delle gabelle e minacciano di bruciare e fare a pezzi gli stessi nobili. Sedata la rivolta nel sangue, ottenuto l’appoggio del ceto medio, cade anche la testa di Bernardo Paternò, diciannovenne cugino di straordinaria bellezza di Vincenzo, barone di Raddusa (M. Concetta Calabrese, I Paternò di Raddusa, Patrimonio, lignaggio, matrimoni (secc. XVI-XVIII), Franco Angeli 2001). Il cavallo, di cui Francesco Tedeschi nel paragrafo Della natura, nome e qualità del cavallo, racconta con parole assai suggestive l’apparizione sulla terra ad opera del Creatore, avrà perso forse “la postura baldanzosa e il garbo allegro, e altiero, con la vivacità de gli spiriti generosi, che da gli occhi brillavano, che dalle nari fumavano, che dalla bocca spumavano: alto nel capo; spazioso nel petto; lucidi gli occhi; gonfie le nari”, e se non sarà stato ancora il Ronzinante di Don Chisciotte della Mancha, accudito dallo scudiero Sancho Panza, certo non avrà portato con brio il busto del giovane Bernardo legato alla sua coda e trascinato per tutta la città prima di essere appeso alle forche erette nella pubblica piazza. La Calabrese, da storica, non lo dice, ma ciò non toglie che lo si possa e voglia presumere, immaginare, proprio a partire dalla lettura della bella introduzione alla ristampa, magari mutando il punto di vista della narrazione e assumendone, per una volta, uno zoomorfo, quello del cavallo. Marinella Fiume








Postato il Martedì, 19 maggio 2009 ore 06:56:59 CEST di Maria Allo
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