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Umanistiche: LE LEGGI DI ROMA IN DANTE E PETRARCA

Rassegna stampa

Le leggi di Roma in Dante e Petrarca

di Emanuela Parisi*

 

Non mancano nella letteratura italiana spunti di riflessione utili a sottolineare l’importanza del tema del diritto, in particolare quello romano, percepito come elemento distintivo e fondante della civiltà.

Il percorso che si vuole qui proporre opera naturalmente una selezione ed ha al centro testi di relativamente facile lettura. L’obiettivo è quello di chiarire agli allievi come il pensiero medioevale vedesse una continuità storica tra l’antica Roma e il presente e quale ruolo importante fosse attribuito alle leggi intese come elemento caratterizzante della civiltà dell’Urbe. Il pensiero giuridico romano, passato attraverso i compilatori di Giustiniano, aveva infatti informato profondamente la cultura europea dopo la rinascita degli studi legali nel XII secolo.

Si sottolineerà quindi l’importanza data al diritto romano in alcuni testi di due dei più importanti autori che seguendo la tradizionale scansione dei programmi vengono trattati in una prima classe di triennio, Dante e Petrarca.

La conoscenza della storia e della storia letteraria del periodo è naturalmente da considerarsi un prerequisito essenziale; l’opera dei due autori andrà inoltre presentata anche alla luce del fermento culturale promosso dalle università e dagli intellettuali comunali che spingeva alla riflessione sul senso della politica e all’impegno civile. Tale spinta ideale alla partecipazione era stata diversamente recepita dai due autori: Dante aveva potuto esperirne la realizzazione contribuendo in prima persona alla vita del Comune fiorentino e poi, dopo l’esilio, sollecitando gli attori della politica italiana; una generazione dopo, in circostanze storiche ormai affatto diverse, Francesco Petrarca, che aveva comunque partecipato alla vita culturale dell’importante centro di studi giuridici di Bologna per passare poi a conoscere quella di Padova, in cui pure non mancavano gli uomini dediti alla attività civile giuridica e notarile, aveva comunque tentato di realizzare i suoi ideali politici, ad esempio appoggiando l’iniziativa di Cola di Rienzo.

 

L’alto lavoro di Giustiniano

Presentata l’opera di Dante potrà essere opportuno proporre una riflessione sul VI canto del Paradiso, in particolare sui vv. 1-33. Agli allievi il canto verrà dapprima presentato in rapporto ai due canti dell’Inferno e del Purgatorio ai quali è legato da affinità tematica; si ricorderà loro che con essi costituisce una triade che affronta il tema politico. Ci si dovrà soffermare sul fatto che il tema è presentato nelle tre cantiche con prospettive diverse e che si parla dapprima della situazione di Firenze per bocca di Ciacco, poi di quella dell’Italia e infine dell’impero. E’ quest’ultimo per Dante, come è noto, un istituto politico voluto dalla provvidenza divina.

Tra tanti personaggi che potrebbero esporre un simile ideale Dante sceglie Giustiniano, proprio in virtù dell’alto lavoro (v. 24) - la redazione del Corpus Iuris Civilis - fatto compiere dall’imperatore; secondo Dante infatti, dopo essersi convertito “a la fede sincera” (v. 19) e dopo aver affidato le armi a Belisario, egli fu in grado di dedicarsi, ispirato da Dio, al compito importante di riordinare le leggi di Roma.

I tratti del personaggio di Giustiniano presentato da Dante non corrispondono alla realtà storica: l’imperatore d’Oriente infatti non abbandonò l’eresia monofisita grazie all’intervento di papa Agapito, come affermato nei vv. 13-20. Se in questo caso si rilevano vaghe le conoscenze dantesche agli allievi si farà però notare che le parole con le quali l’Imperatore si presenta (“Cesare fui e son Iustiniano,/che, per voler del primo amor ch’i’ sento/d’entro le leggi trassi il troppo e il vano”, vv. 10-12) con incredibile efficacia esprimono il suo indubbio merito di avere legato indissolubilmente quell’impero del quale traccia la storia provvidenziale alle leggi di Roma. Il compito fondamentale della monarchia, ha scritto Natalino Spegno, è per Dante “l’instaurazione della giustizia come fondamento dell’ordine e del progresso civile”, e il suo idealizzato Giustiniano lo ha realizzato.

 

Il popol senza legge e il latin sangue gentile

Un maggiore lavoro di approfondimento richiederà il sottoporre alla attenzione degli allievi il testo della petrarchesca Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno (CXXVIII). I temi che vi vengono trattati, legati all’impegno civile di Petrarca, sono naturalmente meglio e più ordinatamente articolati in alcune delle sue epistole; sarà tuttavia più facile analizzarli facendo ricorso alla canzone. Il testo infatti, di non agevole lettura se confrontato con altri componimenti proposti nel Canzoniere, è comunque presente nei più comuni manuali, raro esempio, insieme alle opere di Giuttone, di una dimensione dell’impegno civile nella poesia lirica che potrà in seguito essere ritrovata in pochi autori (si richiamerà in proposito almeno la leopardiana canzone All’Italia; e non si ometterà di anticipare agli allievi che alcuni versi del testo petrarchesco saranno posti da Machiavelli, come esortazione, a chiudere l’ultimo capitolo de Il principe, quello in cui il fiorentino pronuncia una “esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de’ barbari”).

La canzone fu scritta probabilmente in occasione della guerra che tra il 1344 e il 1345 vide Obizzo d’Este e Filippino Gonzaga contendersi il possesso della città di Parma facendo ricorso a truppe mercenarie. Il testo prende dunque spunto da una circostanza occasionale per generalizzare il discorso e proporre un confronto tra il mondo classico e il mondo barbarico.

Nella prima strofa l’autore si rivolge all’Italia (vv. 1-6); quindi al “Rettor del cielo”, perché volga gli occhi al suo “diletto” Paese e per bocca del poeta intenerisca ed apra i cuori induriti dalla guerra (vv. 7-16).

A partire dalla seconda strofa il discorso è poi rivolto direttamente a coloro ai quali il destino ha affidato il compito di guidare le città italiane (“Voi cui Fortuna à posto in mano il freno/de le belle contrade”, vv. 17-18). I signori d’Italia vengono accusati di miopia ed invitati a considerare il fatto che a combattere nel Paese sono chiamate le “pellegrine spade” dei mercenari scesi nella penisola (v. 20).

Le quattro strofe successive esplicitano poi con decisione la contrapposizione tra la civiltà latina e la barbarie germanica, richiamando la conformazione del Paese, a nord delimitato dalle Alpi che la Natura ha posto come argine alla “tedesca rabbia” (v. 35), le vittorie di Mario contro Cimbri e Teutoni (vv. 45-48) e quelle di Cesare (vv. 49-51); vi si ripropongono inoltre moniti ai signori d’Italia perché, in nome della patria comune, cessino le ostilità. L’ultima strofa li invita a riflettere sulla brevità della vita, proponendo un tema esistenziale che gli allievi potranno riconoscere come tipicamente petrarchesco. Chiude la canzone il consueto commiato che presenta una sentita invocazione alla pace.

Il testo, dunque, presenta la tradizione di Roma come ancora viva nel primato dell’Italia, invita a rinnovare il valore degli antichi coloro che appartengono a tale patria comune (“’l terren ch’io toccai pria”, v.81; il “nido/ove nutrito fui”, vv. 82-83; “la patria in ch’io mi fido,/madre benigna e pia”, vv. 84-85) e condanna la barbarie germanica. E’ proprio sul confronto tra quest’ultima e la civiltà propria del “Latin sangue gentile” (v. 74) che verrà fatta porre l’attenzione, rilevando come, facendo ricorso a un topos consolidato che vede le leggi - e le leggi di Roma in particolare – come un fondamentale segno di civiltà, quello germanico sia definito “popol senza legge” (v. 43).

 

*Ricercatrice, insegna latino e storia in un liceo romano

 

 

 

 

 

 









Postato il Lunedì, 22 dicembre 2008 ore 08:45:06 CET di Salvina Torrisi
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