L’orientamento nell’apprendimento permanente
Anche l’orientamento al pari dell’apprendimento deve essere permanente, affinché
i cittadini lungo tutto l’arco della loro esistenza possano usufruire di servizi
in grado di orientarli nella circolarità sempre più frequente di momenti
formativi e lavorativi, determinata dalla strutturale transitorietà dei sistemi
economici e sociali.
Il panorama dell’orientamento a livello nazionale in questi ultimi dieci anni è
stato interessato da una serie di cambiamenti di varia natura, anche su impulso
della stessa Unione europea, che ne hanno fatto un comparto in continua
evoluzione e, quindi, complesso ed articolato con contorni e dimensioni
difficili da definire.
Da una recente stima del Censis, risulta che sono quasi 26.000 le strutture che
presumibilmente erogano servizi di informazione e orientamento alla formazione
e/o al lavoro in Italia (fig. 1): un arcipelago composito di soggetti afferenti
al sistema scolastico (58,8%), al sistema dei servizi pubblici e privati per il
lavoro (16,9%), al sistema della formazione professionale (14,9%), al terzo
settore (4,1%), al sistema dell’alta formazione (3,1%), e al sistema dei servizi
socio-sanitari (2,3%).
Sul lato della domanda reale e potenziale, si evincono indizi di diversa natura
che comprovano la scarsa capacità del sistema di offerta, significativo sotto il
profilo numerico, di essere pervasivo e rispondente ad aspettative e bisogni
delle diverse tipologie di destinatari (tav. 1): il 57,7% degli studenti di età
compresa tra i 14 ed i 19 anni afferma che l’orientamento fornito dalla scuola
media è generale e generico; il 38,9% dei giovani in uscita dalla scuola
secondaria di II grado dichiara di aver acquisito informazioni su opportunità di
studio e lavoro dopo il diploma soprattutto attraverso la ricerca personale,
mentre tra le attività autonome agite per il reperimento delle informazioni
prevalgono la consultazione di riviste e giornali (88,4%) e di internet (77,4%).
Analoghe asimmetrie tra domanda ed offerta di servizi di orientamento sono,
altresì, rilevabili tra la sottopopolazione degli adulti (compresi nella classe
di età 25-70 anni), di cui: il 56,0% non sa indicare organizzazioni pubbliche o
private che possono offrire attività di formazione per adulti nell’ambito del
proprio territorio; il 73,0% ha deciso per proprio conto di partecipare ai corsi
di formazione frequentati; il 22,2% non è in grado di indicare enti a cui
potrebbe rivolgersi per conoscere le attività formative svolte sul territorio;
il 26,8%, pur essendo in grado di individuarli, si limita ai soli
centri/organismi pubblici presenti sul territorio (Comune, Provincia, Regione),
ignorando la possibile presenza o attività di altre tipologie di enti.
Internet, da un lato, e rete delle relazioni primarie/informali, dall’altro,
svolgono un ruolo “orientativo” prevalente nei cittadini con 18 anni di età ed
oltre alla ricerca di informazioni su corsi di formazione di loro eventuale
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interesse. Dalla lettura dei dati contenuti nella tabella 1 è dato osservare che
il 53,0% di essi ha reperito tali informazioni attraverso la navigazione di siti
internet e per il 41,1% attraverso conoscenti (familiari, amici, colleghi di
lavoro).
Il fervore che in questi anni ha percorso il lato dell’offerta non è stato
indirizzato secondo un’ottica di sistema. Lo scenario si caratterizza ancora per
un insufficiente livello di formalizzazione normativa; le norme
sull’orientamento sono distribuite in testi, disciplinanti ambiti di altra
natura. La mancanza di un quadro normativo unitario e semplificato nelle sue
articolazioni origina sul fronte operativo, ovvero dell’erogazione dei servizi,
frammentazione istituzionale, incertezza tecnico organizzativa e talvolta
precarietà professionale.
Scuola secondaria di II grado: come e dove
intervenire secondo i dirigenti scolastici
Le indagini Pisa hanno posto l’accento sugli inadeguati livelli di competenza
che i 15enni italiani, nel confronto con i Paesi Ocse, raggiungono in italiano,
matematica e scienze. I risultati degli ultimi scrutini di scuola secondaria di
II grado, comprensivi di quelli di settembre introdotti con l’O.M. 92/2007,
mostrano un lieve aumento della percentuale di respinti, dovuto proprio a questa
innovazione. Sostanzialmente però la quota di respinti rimane stabile da anni
intorno al 15-16%.
Nonostante ciò, i primi risultati di una recente indagine del Censis, condotta
su un panel di 441 dirigenti scolastici di scuole secondarie di II grado,
sembrano indicare la presenza nel corpo scolastico di elementi di vitalità e di
proposte costruttive e concrete per migliorare le performance della scuola.
Inoltre, seppure siano segnalate ampie e significative sacche di demotivazione e
pessimismo emerge anche la fiducia nelle possibilità endogene al sistema di
superare le attuali difficoltà congiunturali.
Riguardo agli scarsi rendimenti scolastici e alla dispersione particolarmente
incidente nei primi anni delle superiori, si registra la tendenza ad individuare
nella scuola secondaria di I grado l’anello debole della catena educativa. Il
62,2% dei dirigenti intervistati ritiene, infatti, che gli studenti arrivino
impreparati dalle medie, ciclo che avrebbe le maggiori necessità di un
ripensamento complessivo (tab. 3).
Spostando la riflessione dalle cause puntuali alle criticità complessive del
sistema scolastico, le opinioni espresse appaiono più differenziate. Quasi la
metà dei dirigenti scolastici (48,4%) lamenta l’assenza di un serio ed
autorevole sistema di valutazione degli insegnanti ed una quota analoga (45,9%)
individua nell’individualismo professionale dei docenti uno degli ostacoli al
raggiungimento di obiettivi formativi espressi in termini di competenze. Sopra
al 40,0% di indicazioni si posiziona anche il problema
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dell’assenza di un serio ed autorevole sistema di valutazione delle singole
istituzioni scolastiche, essendo ormai in via di superamento il timore di una
valutazione di tipo punitivo o formale-burocratico (13,9%).
Tra le soluzioni auspicate dai dirigenti scolastici, il massimo consenso si
focalizza, (61,6%) intorno ad un modello organizzativo che permetta alle scuole
di gestire autonomamente il budget e le risorse umane, rispondendo dei risultati
ottenuti. Sempre sul filone dell’innovazione organizzativa si posiziona il 45,8%
di presidi che chiede l’adozione di meccanismi meritocratici nella gestione
delle risorse umane ed il 41,0% che vedrebbe con favore un ampliamento delle ore
di servizio presso l’istituto da parte degli insegnanti, ed una maggiore
flessibilità nel loro utilizzo, in modo da potere trovare nuove soluzioni
organizzative.
Nonostante le oggettive difficoltà in cui versa il sistema scolastico italiano,
a prescindere dalle diverse posizioni espresse in merito ai necessari processi
di riforma tra i dirigenti scolastici sembra abbastanza diffuso, un
atteggiamento di (cauto?) ottimismo sulla capacità di tenuta del sistema
scolastico pubblico (tab. 4). In particolare, il 39,8% di presidi dichiara di
essere, al riguardo, ottimista, sebbene a questi si contrappongano un 26,1 % di
dirigenti “disorientati”, un 14,1% di “sfiduciati” ed un 11,5% di pessimisti,
tutti stati d’animo che però non sfociano nella demotivazione, atteggiamento
segnalato da appena il 2,4%.
Meno confortante il complessivo stato d’animo del personale a loro sottoposto:
docenti e non docenti appaiono, secondo i presidi, del tutto disorientati nel
48,8% dei casi, se non demotivati (28,8%) e sfiduciati (11,8%).
Università: scenari e strategie
per un malato cronico
La metafora del malato cronico può essere utilmente impiegata per descrivere lo
stato di crisi in cui versa il sistema universitario italiano. Nonostante i
diversi interventi di riforma di questi ultimi anni, tarda ad essere
implementato un sistema di ripartizione dei finanziamenti che prescinda dal
criterio della “spesa storica” per premiare obiettivi e risultati conseguiti dai
singoli atenei; non si è ancora riusciti ad introdurre modalità di reclutamento
del corpo docente scevre da influenze clientelari o localistiche; gli auspicati
processi di semplificazione dell’offerta corsuale e razionalizzazione delle sedi
periferiche procedono in modo stentato: tra il 1999 ed il 2007 il numero di
Comuni sede di strutture e corsi universitari è aumentato del 26,5%, mentre i
corsi di laurea triennali sono passati, dai 3.565 del 2004-2005 ai 3.922 del
2007-2008 (tav. 2).
A queste criticità, oramai di lungo periodo, altre se ne aggiungono suscettibili
di impattare sulla didattica, sui costi, sull'output del processo universitario:
nell’a.a. 2006-2007 la quota dei docenti a contratto titolari di insegnamenti
ufficiali ha sfiorato il 60% (a.a. 2001-2002 38,0%); le iscrizioni alle lauree
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specialistiche sono in crescita esponenziale (+31,8% nel triennio 2005-2007), ma
non è ancora chiaro se tale tendenza sia frutto di un arbitraggio con
l'iscrizione ai master (la cui offerta complessiva è in riduzione) o frutto di
una consapevole scelta di investimento "culturale”; i flussi di fuorisede
iscritti alla laurea specialistica raggiungono percentuali ben superiori a
quelle misurate per gli altri corsi di laurea, triennali incluse (26,6% contro
19,0%), favorendo l'interpretazione di una laurea triennale vissuta come
prolungamento dell'istruzione superiore; resta difficile declinare il tema
dell'autonomia se non correlata con l'autofinanziamento: nel 2005, rispetto ad
una quota di finanziamento del fondo ordinario pari a 58,2% delle entrate degli
atenei statali, le tasse universitarie incidevano per il 12,1 %.
A fronte di questi nodi critici, la richiesta che si leva dalle università
italiane sembra sempre più orientarsi verso interventi che accrescano la
competitività del sistema universitario nazionale, declinati principalmente sul
concetto di qualità. Infatti, i principali risultati della ormai tradizionale
indagine di Censis Servizi – La Repubblica realizzano sui presidi delle facoltà
universitarie (tab. 5) indicano un diffuso consenso sulla ripartizione dei
finanziamenti statali esclusivamente in base ai risultati della valutazione; un
forte dissenso rispetto alla separazione tra università di ricerca e università
di didattica; un sostanziale accordo su un’organizzazione della didattica più
ispirata alla qualità e al superamento della passata proliferazione di sedi e di
corsi di studio, in favore di un’offerta formativa concentrata territorialmente
e scientificamente.
Rispetto alle strategie per mettere a valore l’autonomia universitaria,
l’indagine 2008 rileva, inoltre, una concentrazione di consenso su alcuni punti:
contrasto all’eccessiva eterogeneità dei profili formativi; istituzione in
autonomia di corsi di laurea a numero chiuso per studenti di eccellenza;
possibilità per gli atenei di attivare finanziamenti autonomi, agendo anche
sulle tasse di iscrizione universitarie; riduzione della proliferazione delle
sedi universitarie, destinando le risorse così recuperate alla costruzione di
residenze universitarie per studenti e docenti fuori sede.
È veramente efficace la formazione
nella Pubblica Amministrazione?
L’Italia sta recuperando terreno nel campo della formazione permanente anche
grazie all’ingente sforzo effettuato ogni anno dalla Pubblica Amministrazione.
Eppure non sempre le competenze acquisite in ambito formativo sono utilizzate
nei contesti lavorativi, mentre la valutazione di impatto, che potrebbe
illuminare sul rapporto costi/benefici della formazione è poco praticata o, se
effettuata, ignorata.
Nel 2007, su 880.000 dipendenti pubblici si sono registrate circa 530.000
presenze a momenti formativi con un tasso di partecipazione intorno al 60%
(60,3%), che supera il 100% in amministrazioni quali le Camere di
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commercio, le autorità e alcuni enti pubblici, per un totale di 1.100.000 ore e
una spesa complessiva di 264 milioni di euro (tab. 6). Uno sforzo imponente per
persone coinvolte, ore erogate e spesa sostenuta.
È pertanto lecito chiedersi cosa resti, in termini concreti, di questo impegno
profuso in attività formative. In assenza di dati più ampi, si può riflettere
sull’Azione Pilota che il Ministero dell'Università e della Ricerca ha
realizzato in attuazione della Misura III.3 del Programma Operativo Nazionale
2000- 2006 “Ricerca Scientifica, Sviluppo Tecnologico, Alta Formazione”,
finalizzata ad adeguare le abilità del personale della Pubblica Amministrazione
su questi temi, nelle regioni meridionali.
I risultati, in merito al gradimento e all’autovalutazione dei risultati
raggiunti, testimoniano di una realtà a due facce (fig. 3): se da una parte i
partecipanti all’Azione Pilota si dicono molto soddisfatti dei risultati
raggiunti, ritenendoli potenzialmente molto utili allo svolgimento del proprio
lavoro, c’è un 32,8% che dichiara di non utilizzare le competenze acquisite in
ambito lavorativo.
I primi dati disponibili sulla valutazione di impatto dell’Azione Pilota
indicano che l’80,0% dei partecipanti è stato scelto dall’amministrazione di
appartenenza per frequentare il corso e come, al termine delle attività
formative, meno della metà (il 46,9%) abbia avuto la possibilità di relazionarsi
con il proprio superiore sulle attività fruite e, tra questi, solamente un’altra
metà (50,7%, vale a dire meno del 25% dei formati) abbia avviato una riflessione
sui cambiamenti funzionali ed organizzativi che l’aver acquisito nuove
competenze professionali potrebbe generare nel contesto operativo di riferimento
(tab. 7).
Si è di fronte, in altri termini, ad una Pubblica Amministrazione che decide
strategicamente circa l’opportunità di inviare propri dirigenti e funzionari a
seguire un attività formativa ma che solo raramente si preoccupa di verificare
come le competenze acquisite possano arricchire il contesto organizzativo in cui
si opera e migliorare lo standard dei servizi offerti.
Tira anche l’export della “conoscenza”
La positiva stagione delle esportazioni italiane di merci si riscontra anche per
quella parte della bilancia dei pagamenti nazionale che riguarda l'“interscambio
di conoscenza”. La cosiddetta bilancia dei pagamenti “tecnologica” - che
rappresenta il trasferimento internazionale di tecnologia non incorporata in
beni fisici - ha realizzato anche nel 2007 un risultato positivo, portando a 817
milioni di euro il saldo fra incassi e pagamenti, rispetto ai 780 milioni del
2006 (tab. 8).
La componente che contribuisce in maniera più rilevante a questo traguardo è
data dai servizi a contenuto tecnologico, all'interno dei quali sono ricompresi
principalmente gli studi tecnici e le attività di engineering. Altra voce che
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contribuisce alla performance positiva della bilancia è data dall'attività di
ricerca e sviluppo finanziata dall'estero, con un saldo di 347 milioni di euro.
Accanto al dato sintetico del saldo, analizzando la formazione di quest’ultimo
in relazione ai Paesi di destinazione, si ottiene un'interessante mappa
dell'interscambio di conoscenza fra l'Italia e le altre parti del mondo.
Dal lato degli incassi, fatto 100 il volume complessivo, si ricava una
distribuzione fra Unione europea e Paesi non-comunitari che assegna alla prima
il 55,3% degli oltre 4 miliardi di euro esportati (pari quindi a 2,3 miliardi C)
e ai secondi poco meno del 45% per un importo in valore di circa 1.900 milioni
di euro (tab. 9).
Dal lato dei pagamenti, la quota relativa all'Unione europea sale al 67,9%,
mentre la componente extra Ue si ferma al 32, 1 %: in sostanza da questi dati di
tipo macro si ricava, in termini relativi, un più evidente orientamento
dell'offerta italiana in ambito tecnologico verso i Paesi comunitari, ma nello
stesso tempo una maggiore capacità di offerta verso quei Paesi che non rientrano
nei confini dell'Unione europea.
Un altro dato interessante si ottiene dall'analisi degli importi realizzati nei
Paesi dell'Unione. Sorprende in particolare il risultato oggettivamente positivo
nei confronti di Paesi come la Francia, la Germania e la Spagna, mentre, anche
per la sua dimensione, emerge in termini relativi la componente dei pagamenti
riferita al Regno Unito (circa 748 milioni di euro) e, di conseguenza, il saldo
negativo che raggiunge i 287 milioni di euro.