È vero che la scuola elementare è la parte migliore del nostro sistema. E due sono le ragioni di questo primato: innanzitutto non è stata contaminata dal “gentilismo”, quell’impostazione idealistica che ha danneggiato il nostro sistema scolastico tenendolo fuori dallo sviluppo mondiale. In secondo luogo alle elementari si è sempre dovuto insegnare a tutti, sia ai talenti che ai ragazzi in difficoltà; e questo fa bene alla scuola. Un talento naturale, infatti, si trovasse anche su un’isola deserta imparerebbe comunque; ma la gran parte dei bambini e dei ragazzi deve invece essere stimolata all’apprendimento. Qui si inserisce l’utilità della didattica, che non è chiacchiera, come spesso a torto si crede, ma porta ad essere attenti a chi impara. E nella scuola elementare questo è stato fatto.
A questo si aggiunga che nella scuola elementare si è dato peso non solo alla teoria, ma anche alla pratica, all’osservazione del reale: i bambini toccano le cose, mentre negli altri gradi di istruzione non si vuole che i ragazzi tocchino con mano la realtà, perché questo, si dice, “non fa cultura”.
Il punto di partenza di molti discorsi sullo stato della nostra scuola sono i risultati dei rilevamenti Ocse: qual è la loro importanza, e cosa dicono in concreto sulla situazione del nostro sistema di istruzione?
I quesiti Ocse non chiedono tanto di sapere, quanto di aver capito determinate cose, e di saperne trarre le conseguenze. Richiedono cioè che ci sia una scuola fondata sui problemi e non sulle nozioni: si possono infatti avere le nozioni, e non saper rispondere ai quesiti. Se i nostri ragazzi non sono in grado di fare questo è per colpa della rigidità con cui ancora viene concepito l’insegnamento: la fisica o la chimica, ad esempio, non la si può insegnare solo sui libri, ma nelle aule in cui si fanno esperimenti, perché la scienza è un insieme di teoria e di esperienza. Magari nei laboratori non ci si va con tutta la classe, ma con gruppi differenziati di studenti. Tutte cose che solitamente non vengono recepite, perché si pensa ancora all’insegnante fisso sulla sua cattedra.
Tornando alle elementari, pare dunque di capire che per lei il vero problema non sia nella diatriba tra i “pro” e i “contro” il maestro unico.
Si è tornato a parlare anche dell’ipotesi di ridurre di un anno l’intera durata del ciclo di studi: cosa ne pensa?
È una cosa che era prevista nella riforma dei cicli che io feci approvare. Per fare questo ero partito dalla considerazione che la prima elementare, per come è rimasta, è oggi inutile, dato che i bambini a quell’età sanno già leggere e scrivere grazie alla frequenza della scuola dell’infanzia. Ma soprattutto è necessario che i ragazzi escano dalla scuola superiore a 18 anni, come negli altri paesi europei: ora invece c’è un vero e proprio spreco, e un inutile ritardo. È tutto un unico problema che si risolve con una generale riforma dei cicli. Propongo di riprendere in mano questo discorso, tenendo anche conto del fatto che ridurre di un anno il percorso è non solo una cosa opportuna, ma è anche un bel risparmio per la casse dello Stato.
Quindi è d’accordo anche lei sul fatto che i tagli nella scuola siano necessari?
Io sono federalista: gli insegnanti devono essere nazionali, la cultura che si trasmette deve essere italiana ed europea, ma la gestione della scuola deve passare alle Regioni. Non bisogna certo fare 20 micro-ministeri dell’Istruzione, perché sarebbe un disastro; ma resta il fatto che sono le regioni a dover gestire il sistema scolastico. In secondo luogo, all’autonomia territoriale si deve aggiungere l’autonomia istituzionale delle scuole, che era il secondo cardine della mia riforma.
Alla fine di tutto rimane però il problema politico del superamento delle contrapposizioni: come uscire dal clima infuocato di questi giorni?
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