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Umanistiche: Il suono della guerra

Rassegna stampa

ll suono della guerra

Nel corso dei secoli, fino al recente conflitto in Iraq, la musica ha incitato al combattimento e ha celebrato le vittorie.

di Carlo Piccardi


Al gennaio del 1788 risale La battaglia (K 535), contraddanza composta da Mozart un mese prima che Giuseppe II dichiarasse guerra ai Turchi. Il clamore della percussione «alla turca» e il penetrante suono dell’ottavino che attraversano le trame di questa svagata musica da ballo, destinata proprio a quell’imperatore, ne erano quindi il preannuncio, tant’è che la Wiener Zeitung ribattezzò la modesta composizione mozartiana col titolo L’assedio di Belgrado. Era infatti quello il «grosser Schall» che si era impresso minacciosamente nella memoria dei Viennesi fin dall’assedio subito dalla capitale asburgica nel 1529, quando le cronache riferivano della presenza fragorosa nell’esercito ottomano di una banda di trombe, zampogne, tamburi, piatti, campanelli e triangolo. Trombe, pifferi e tamburi sono sempre stati in prima fila nelle armate a incitare i soldati all’assalto. Persino nella recente guerra in Iraq, quando lo spazio acustico della battaglia era saturato dai suoni meccanici dell’arsenale tecnologico e dall’assordante scoppio delle bombe, nelle compagnie scozzesi c’è stato ancora posto per l’accompagnamento di pungenti cornamuse. Fatto sta che, sapendola procedere di pari passo con stragi di teste tagliate e terra bruciata, la banda dei giannizzeri fu per l’Europa il terrorizzante annuncio sonoro di barbarica invasione, temutissima al punto da richiedere una decisa risposta. Accorso nel 1683 a Vienna a contrastare le truppe del sultano, Sobieski fece accompagnare il suo esercito da un corpo musicale «turco», quasi a voler replicare con trombe e tamburi al suono incitante prodotto dai veri giannizzeri. Ed è significativo che nel 1699 i 27 sassoni che componevano la banda del re di Polonia portassero costumi orientali: al di là dell’aspetto pittoresco, la banda finta turca che sfilava con l’esercito, oltre alla riscoperta della funzione bellicosa della musica, si presentava come metafora rassicurante di trofeo di guerra. Ed era finzione fino a un certo punto, se pensiamo che nel 1734 nel corpo musicale della marina austriaca figuravano prigionieri turchi veri e propri, mentre era un vanto per i reggimenti il fatto di poter esibire in testa alla propria banda miliare un turco autentico, un moro o (in mancanza d’altri) uno zingaro dalla pelle olivastra. Il fatto di ritrovare l’armamentario strumentale dei giannizzeri nella Sinfonia in sol maggiore n. 100 di Haydn, detta appunto «Militare», in un autore il cui nonno nella sua infanzia era scampato avventurosamente al pericolo di essere massacrato dalle orde del sultano, la dice lunga sul significato occulto nascosto dietro la sonorità squillante di una musica risolta a stimolare il piacere. Era quello il culmine di una moda «alla turca» che, attraverso autori quali Gluck, Dittersdorf, Franz Joseph e Michael Haydn, Mozart, Beethoven, era stata fatta propria dai musicisti occidentali quasi per esorcizzare la terrorizzante impronta sonora, rovesciando il senso di presagio di sanguinose stragi in giocoso stordimento scandito da sonorità brillanti, al punto che era possibile adattarlo alla musica da ballo.

Tale spunto giocoso, quasi infantile, accompagna le guerre fin dai tempi lontani. Se è difficile oggi ridurre il comportamento psicologico di fronte alla guerra a un comune denominatore, a causa delle differenti motivazioni politiche e culturali, lo è ancor più nel momento in cui ci confrontiamo con realtà remote obbedienti a mentalità superate da altri stadi di civiltà. Quando Janequin nel 1515 compose La guerre chiedendo alle quattro voci di imitare il suono delle spade che si urtano e delle archibugiate, era dichiarata l’eco della contesa di Marignano che, per l’evidenza della dimensione sonora, trovava modo di essere rappresentata in musica. Il fatto poi di risolvere essenzialmente il tutto in una girandola di effetti sonori, prima ancora di essere interpretato come un compiaciuto esito ludico, poteva avere una motivazione sotterranea nell’insopportabilità dell’orrore conseguente a innumerevoli morti violente, rimosso per mezzo della trasposizione simbolica a livello sonoro concettualmente distinto. È significativo che, a distanza di secoli, sia possibile riscontrare lo stesso fenomeno nel paroliberismo dei Futuristi, sperimentato non a caso in una situazione di guerra, in quel Bombardamento di Adrianopoli («Zang-tumb-tuuumb») vissuto realmente da Marinetti in trincea per essere trasposto in poesia grafico-sonora che in delirio esaltatorio esorcizzava la cruenta realtà del vissuto. Non per niente persino l’intuizione dell’Arte dei rumori, dove Russolo analizza minutamente il crepitio delle mitragliatrici, degli shrapnel e di altri tipi di proiettile, proviene dalla sua esperienza diretta alla presa di Dosso Casina e Dosso Remit nella Grande Guerra. Non succede forse la stessa cosa oggi di fronte al televisore, attraverso il quale la guerra è ridotta a un videogioco, privato del colore e dell’odore del sangue? Il fatto che l’esercito americano in Iraq abbia concesso ai giornalisti e ai reporter l’accesso alla prima fila, diversamente dalla censura operata sulle immagini nella prima Guerra del Golfo, è probabilmente il risultato della presa di coscienza della capacità del mezzo audiovisivo di far giungere le immagini sugli schermi casalinghi in una condizione di ineluttabile asetticità. E fu probabilmente per la consapevolezza di questo tradimento informativo che Matthias Hermann Werrecore nella sua Battaglia taliana, in cui faceva il verso alla moda imitativa inaugurata da Janequin, accanto ai pirotecnici effetti sillabici («Tif tof ure lure lure lof...») moltiplicati dalla scelta del multilinguismo (oltre all’italiano dei Milanesi vi compare il francese dei nemici, lo spagnolo dei mercenari iberici e il tedesco dello «Sguizaro villano») introdusse un momento in cui il pensiero dei soldati andava alla Madonna e al Signore («O nostre dame o bon Jesu, astur nous sommes perdus»). Ma si sa che Werrecore fu realmente presente alla battaglia di Pavia nel 1525, per cui, benché incaricato di magnificare la vittoria dello Sforza su Francesco I, qualcosa della drammaticità della situazione riusciva pur sempre a filtrare tra le trame di una musica orientata a senso unico verso la spettacolarità.

È ciò che succede nella Gerusalemme liberata, nel sangue della musulmana Clorinda ferita a morte dal cristiano Tancredi con indugio che, al di là della sensualità della descrizione, riporta il dissennato confronto di religioni alla centralità ineludibile della morte. Era quella l’epoca in cui l’Occidente si trovava a fronteggiare l’espansione ottomana, cosciente di vivere una situazione epocale, che attribuiva quindi una dimensione di attualità ai poemi cavallereschi dell’Ariosto e del Tasso che riproponevano le epopee delle medievali chansons de geste. Si trattava di un’operazione funzionale al clima di confronto drammatico con l’Oriente. Andrea Gabrieli compose il madrigale La battaglia pensando a Lepanto, schierato con altri artisti ovviamente in favore della posizione occidentale, in questo caso per l’importanza della posta in gioco continentale, ma anche per il rapporto diretto di dipendenza dal potere di una Venezia in prima fila nel conflitto. Nell’ancien régime non era concepibile la dissociazione dell’artista dal ruolo rappresentativo e di servizio che era chiamato a svolgere, per cui sarebbe vana la ricerca di tracce di obiezione di coscienza in quell’ambito. La forma politica assolutistica che costituiva la norma avrebbe reso incomprensibile una distinzione del genere, per cui il suono della guerra poteva addirittura essere evocato anche sotto la volta delle chiese. Quando Händel fu chiamato a comporre un Te Deum di ringraziamento, per la vittoria degli Inglesi sui Francesi a Dettingen nel 1743, concepì un fastoso apparato celebrativo aperto da trombe e timpani che elevano il clamore di strumenti guerreschi a lode a Dio, senza che la sua mente fosse attraversata dal dubbio di quanto poco il Signore potesse accettare di una preghiera associata a un simbolo di guerra, foriero di orrori e miserie. Il quadro estetico barocco, nella ricerca della grandiosità e della magnificenza, era in grado di integrare alla celebrazione, trasformandoli in simbolo, gli echi delle bande in combattimento.

La situazione mutò con la Rivoluzione francese, ricordando la quale spesso si dimentica che il concetto di morte e di guerra (intese come sacrificio per la nazione) all’origine si collegava indissolubilmente ai valori di libertà, fraternità e uguaglianza. L’acquisito principio di democrazia, che sottraeva il popolo ai vincoli di sudditanza, ne promuoveva la responsabilità non solo come cittadino ma anche come soldato. La partecipazione alla cosa pubblica significa uguaglianza anche di fronte alla guerra. È al cittadino soldato infatti che si appella la Marseillaise («Aux armes citoyens»), partorita dall’infuocata mente di Rouget de Lisle nella febbrile notte del 24 aprile 1792 a Strasburgo, quando il giovane ufficiale si rese conto di essere in prima linea all’annuncio della dichiarazione di guerra del governo della Repubblica contro la coalizione dei regnanti delle nazioni che la accerchiavano. «Chant de guerre pour l’armée du Rhin» è il titolo originale di quello che sarebbe diventato l’inno francese, a sancire come il concetto di nazione abbia le sue radici nell’idea di guerra e di morte. Non per niente, prima ancora degli accenti bellicosi per non dire truci («qu’un sang impur abreuve nos sillons») dell’Hymne des Marseillais, l’immaginario nazionale era stato creato dalla Marche lugubre composta da Gossec per la cerimonia funebre del 20 settembre 1790 in onore alle vittime della Rivoluzione a Nancy, ma poi regolarmente impiegata per i funerali delle grandi personalità politiche (Mirabeau) e soprattutto dei generali caduti negli scontri con gli eserciti degli stati della reazione (Hoche). Questa composizione, diventata il modello per le moderne cerimonie funebri civili, adottava il tam tam, terrificante rimbombo lasciato risuonare nel senso di vuoto prodotto dalle lunghe pause che spezzano il tema a singhiozzi. È l’idea del nulla, della morte che si presenta all’uomo nella sua solitudine di individuo responsabilmente chiamato a farsi carico da solo del proprio destino, a introdurre un senso di fatalità non più recuperabile alla dimensione consolatoria della religione. Ciò fa capire l’impatto ossessivo delle nuove sonorità imposte dai cruciali avvenimenti francesi, quando le feste civili si aprivano all’alba con salve di cannone accompagnate da campane a martello: i simboli del pericolo e della morte venivano indissolubilmente associati alla nuova idea di stato, da difendere fino al sacrificio estremo, alimentando un immaginario sonoro fondamentalmente tragico. Non per niente nelle sue memorie Grétry ricorda come quattro anni dopo la Rivoluzione i suoi sogni fossero ancora funestati dal suono delle campane a martello. Suono che Gossec introdusse nell’Offrande à la Liberté (1792), dove una strofa della Marseillaise distesa in imitativo e religioso procedere viene interrotta dai rintocchi fatali e da tre colpi di grancassa (cannone), a risvegliare lo slancio pugnace della ripresa dell’inno. Grétry non mancò inoltre di rilevare come all’«éclat triomphal» della nuova musica si accompagnasse l’«élan terrible», osservando come la musica dei tempi nuovi si stesse sviluppando in una dimensione fatale che preannunciava la presa di coscienza di Beethoven il quale, dedicando all’eroe della nuova epoca (Napoleone) la sua Terza sinfonia, ne faceva dipendere il significato dalla cupa sacralità della Marcia funebre che, nello spessore di tragedia antica, coglieva la problematicità esistenziale legata all’implicita dimensione di eserciti in lotta nell’affermazione dei nuovi valori.

Con l’ardore romantico e le speranze alimentate dal ’48 riprese quota lo slancio idealistico che ritroviamo alla base delle scalpitanti espressioni risorgimentali: il coro della Norma («Guerra, guerra») più che la ferocia interpreta l’impeto generoso della ribellione all’invasore. L’atmosfera cambia nella seconda metà dell’800 quando il patriottismo si trasforma in nazionalismo. A questo punto l’idea di patria assume un volto torvo. Nel 1870 persino un compositore dell’intimità quale Brahms, decidendo di scendere nell’arena a celebrare la vittoria prussiana sui Francesi, partorisce la sua partitura più greve e minacciosa, il Triumphlied op. 55 dedicato al Kaiser Guglielmo I. In Germania il tono ai venti di nuove guerre era però già stato dettato da Wagner con la Cavalcata delle Valchirie e la Marcia funebre per la morte di Sigfrido che introdussero una cifra oscura e misterica nella morte che attende il guerriero in battaglia, predisponendole a essere adottate dalla venefica irrazionalità del sentire manifestata dai Nazisti. Non per niente lo storico annuncio dell’invasione della Polonia nel settembre del 1939 veniva accompagnato alla radio hitleriana dall’avvio dei Préludes di Liszt, di una sinistra espressione della stessa area decadentistica neotedesca, mentre è significativo che, al di là di marce rozze e squadrate, del Terzo Reich non sia rimasta testimonianza musicale originale oltre l’appropriazione (quasi un saccheggio) di prodotti storici. Diverso è il caso di chi ne fu vittima e che, dall’immane violenza subita, ricavò la forza per dare forma a una moderna epopea. La Settima sinfonia (1941) di Dmitri ?Sostakoviç, composta a Leningrado nei mesi dell’assedio che seminò la morte per fame, freddo e indigenza fra la popolazione, ha fissato la cifra sonora del male assoluto sul ritmo inarrestabile di marcia meccanica, nel profilo sfigurato e grottesco del tema, nella lacerazione delle armonie, nei timbri lancinanti, quasi a provocare una ferita nell’ascolto per essere tramandata come una cicatrice indelebile nell’immaginario sonoro. Effettivamente da allora poche opere ne hanno raggiunto la portata epica, tranne Penderecki negli stridori di 52 archi saturanti lo spazio sonoro come lungo ululato di sirena in una dimensione quasi al di là del reale con Trenodia per le vittime di Hiroshima (1960), e soprattutto Luigi Nono in un episodio di A floresta è jovem e cheja de vida (1966) il quale, di fronte all’intervento americano in Vietnam, sul testo della teoria dell’escalation di Mac Namara ha costruito un memorabile montaggio di voci e di suoni che come evocazione di vite oppresse e strozzate è l’ultima testimonianza di una rivendicazione di umanità di fronte al burocratico meccanismo stritolante della guerra moderna. Sono trascorsi infatti quasi 40 anni; di guerre ne abbiamo viste ancora molte (con coinvolgimento diretto degli occidentali nella Guerra del Golfo e nella ex Jugoslavia), ma non abbiamo più registrato opere significativamente in grado di elaborarne l’immagine sonora. È come se, nella prospettiva «chirurgica» inaugurata dalla mediazione di apparati tecnologici sempre più sofisticati, la dimensione dell’uomo vi sia stata cancellata e abbia lasciato la sua rappresentazione sugli schermi televisivi all’apparenza di un indistinto videogioco. Mentre fino al Vietnam la guerra aveva ancora suscitato canzoni, oggi, nella dimensione quasi virtuale della guerra delegata a soldati-robot meccanizzati, deprivandoli dell’aspetto antropomorfico è come se sia stata tolta loro anche la voce necessaria ad intonarne gli inni, non concessa nemmeno alle migliaia di pacifisti disorientati ed ammutoliti nelle strade. Ci potranno ancora essere epopee di guerra senza canti?










Postato il Mercoledì, 26 marzo 2008 ore 23:23:30 CET di Agnese Indelicato
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