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Umanistiche: IL DECLINO DELL'INTELLETTUALE ITALIANO

Rassegna stampa
Intellettuali, non una voce

  
 

1° articolo, 18 febbraio 2004

Il declino dell'intellettuale italiano
di Romano Luperini

Nel settembre 1975 un episodio di cronaca nera, il delitto del Circeo (due giovani fascisti pariolini avevano seviziato due ragazze di borgata, uccidendone una), divenne un episodio culturale: Calvino, Pasolini, Fortini lo commentarono sulla prima pagina del Corriere della sera e del Mondo, leggendovi una trasformazione complessiva della società italiana e della condizione giovanile. I protagonisti del dibattito letterario e culturale erano allora anche protagonisti della vita pubblica. Né c’erano solo Calvino, Pasolini e Fortini, ma anche Sciascia, Fo, Sanguineti.

Nel 1974 Fo aveva rappresentato per la prima volta il suo capolavoro, Mistero buffo, e Sciascia pubblicato Todo modo, in cui denunciava la collusione fra DC e mafia.

Sempre il 1974 è l’anno in cui Volponi era uscito con Corporale e la Morante con La storia. Pochi mesi prima erano stati pubblicati Pasque di Zanzotto e Il castello dei destini incrociati di Calvino e sugli schermi cinematografici era apparso Amarcord di Fellini; pochi mesi dopo Montale vincerà il Nobel e usciranno gli Scritti corsari di Pasolini e Il muro della terra di Caproni.

Trent’anni fa. Gli intellettuali avevano ancora una funzione pubblica, l’Italia un posto sulla scena internazionale della cultura. Il dibattito letterario e artistico era ancora vivo e le riviste culturali promosse da scrittori potevano occupare ancora uno spazio etico-politico (Alfabeta comincerà a uscire nel 1973, e sarà l’ultima). I registi italiani erano maestri riconosciuti in tutto il mondo, e si chiamavano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. Fra gli scrittori, Calvino e Sciascia avevano un ruolo di primo piano in Europa. Poeti allora poco più che cinquantenni come Zanzotto, Luzi, Sereni, Fortini, Pasolini (o anche più giovani, come Sanguineti) godevano di un’autorità già riconosciuta.

Oggi non ci sono più, fra gli scrittori, dibattito culturale e politico e conflitto di poetiche, né, fra i critici e i teorici della letteratura, dialogo e polemica fra i vari metodi (non ci sono più, nemmeno, metodi identificabili: trionfano l’eclettismo e, come è stato denunciato da tempo, la «crisi della critica»). Fra il 2002 e oggi non sono usciti romanzi e film neppure paragonabili a quelli sopra ricordati. Nessun poeta che abbia fra i cinquanta e i sessant’anni ha in Italia un’autorità e un prestigio come quelle che avevano allora Zanzotto, Sereni, Luzi, Fortini, Pasolini, Sanguineti. Il ruolo internazionale del cinema, del teatro, della letteratura italiani è vicino a zero.

Di quello che sta succedendo nel mondo o in Italia nella produzione letteraria non c’è quasi traccia. Gli esordienti che ogni anno si presentano a «Ricercare» si dilettano in racconti ginecologici e ombelicali, a base di cazzo e di vomito; gli scrittori di mezza età si attardano in uno stanco postmodernismo manieristico. Per il cinema – se mi è permessa un’incursione in un campo che non è il mio – si è parlato recentemente di ritorno a un confronto con la realtà e con la politica, ma, visti in questa luce, i film che dovrebbero esprimerlo risultano alquanto deludenti: La meglio gioventù esalta una ricca borghesia idillica, progressista e buonista con casolari in campagna in Toscana e si conclude con cartoline illustrate da Stromboli e dalla Val d’Orcia e con la grottesca apparizione del fantasma del fratello morto a unire la coppia dei protagonisti e a santificare il lieto fine nel modo più scontato e tradizionale; The dreamers ripresenta la vecchia storia morbosa dell’incesto facendo del Sessantotto solo uno scenario casuale ed esterno; Buongiorno notte evita prese di posizione chiare e si conclude anch’esso con fantasie buoniste. Persino Moretti, che pure è fra i pochi che s’impegna direttamente, troppo spesso come regista riduce la prospettiva politica a un mal di pancia personale.

Si obietterà, giustamente, che la situazione storica è cambiata e la figura dell’intellettuale-legislatore tramontata per sempre. E tuttavia il panorama dei prodotti letterari e filmici che ci giunge dagli Stati Uniti e dal resto d’Europa, oltre a essere spesso di qualità più elevata, è assai più ricco e vivo, meno evasivo e narcisistico, più fervido di richiami alla realtà sociale e politica. Nessuna generica deprecatio temporis, dunque. Si tratta piuttosto di prendere atto di un declino della civiltà italiana, o comunque di una sua parte consistente, avviatosi già a partire dagli anni Ottanta e accentuatosi poi con il passare degli anni sino a toccare in questo inizio di millennio un suo punto estremo. Parlo di un declino, dunque, non solo politico ed economico (su questo siamo d’accordo tutti), ma anche intellettuale. Di questo immiserimento culturale e civile, dilagante in ogni piega della società italiana, lo stesso caso Berlusconi – neppure, infatti, immaginabile in Gran Bretagna o in Francia o in Germania – è piuttosto un effetto che una causa. In Europa un italiano ha da vergognarsi non solo del proprio governo. È in questione, insomma, un generale clima etico-politico. Siamo davanti a uno sbracamento complessivo, a una mancanza di orgoglio culturale e di dignità nazionale, a un disinteresse per la cosa pubblica, a una accettazione frettolosa di ogni novità indotta dalla americanizzazione. Fenomeni come lo scimmiottamento scomposto di quanto c’è di peggio oltre Atlantico, l’adozione indiscriminata di termini americani (una sorta di «similinglese») nella sfera pubblica e nella produzione letteraria, o la diffusione di un gergo e di una ideologia economicisti anche in settori che non dovrebbero rispondere in primo luogo a esigenze di mercato, quali la scuola, la ricerca, la sanità, precedono l’attuale esperienza di governo di Berlusconi (l’ultimo di centro-sinistra non è stato certo esente da colpe in proposito). A suo tempo Gramsci aveva mostrato come dietro i fenomeni linguistici si dovessero leggere precise strategie egemoniche delle forze politiche ed economiche. Ma oggi, in Italia, chi si ricorda di Gramsci (ben presente, invece, nel dibattito culturale attuale negli Stati Uniti)?

Mentre un terzo del pianeta muore di fame, di AIDS, di guerre, e milioni di persone in cerca di una possibilità di sopravvivenza cominciano a invadere il nostro paese; mentre saltano in aria le Twin Towers e si stanno gettando le premesse per un immane contrasto di civiltà e di religioni; mentre si assiste a una drammatica palestinizzazione del pianeta; gli intellettuali italiani (se non tutti, certo quasi tutti) sembrano in tutt’altre faccende affaccendati. Giulivi, disinvolti, narcisisti, furbi, pronti a fiutare ogni moda e ogni indirizzo del mercato culturale, sommersi nel clima di declino morale e civile in cui viviamo. Privi di passato e di futuro. Felicemente immemori e accecati.

C’è stato un salto fra le generazioni. Nessuna eredità. Fortini, Sciascia, Volponi sono stati dimenticati; Pasolini è stato ridotto all’icona di un santino omosessuale e un po’ trasgressivo; Calvino è diventato un classico per gli accademici e i professori dei licei; la neoavanguardia un oggetto da museo (d’altronde, hoc erat in votis) e da tesi per le scuole di dottorato. Il postmoderno, con il suo disincanto e il suo manierismo giocoso e disimpegnato, in agonia già da tempo, è morto, definitivamente crollato con le due torri di New York. Ma nessuno in Italia sembra essersene accorto.

All’inizio degli anni Settanta Pasolini parlava, per il nostro paese, di un genocidio culturale in corso. C’è stato e ha fatto tabula rasa. Il postmoderno italiano è stato questo genocidio; e dunque, pur risentendo di quello internazionale, ha avuto caratteri propri. Rispetto agli Stati Uniti, alla Francia, alla Germania, alla Gran Bretagna l’Italia aveva tradizioni culturali moderne assai più fragili, un costume civile più approssimativo, più posticcio e precario. Il tessuto della memoria e del patto fra le generazioni si è lacerato da noi più che in altri paesi, facendo affiorare una trama esclusiva di facili disimpegni, di egoismi e di interessi individuali (o di gruppi o di corporazioni), di atteggiamenti ludici e di agili cinismi. La crisi dello «stile», della «profondità» e dello spessore è servita come lasciapassare all’appiattimento e alla banalizzazione linguistici, all’azzeramento delle tradizioni, alla rincorsa dei modelli proposti dal mercato editoriale o, talora, al ripristino di calligrafismi e di improbabili lirismi e autolatrie. Ne ha risentito non solo il clima civile e politico, ma la stessa qualità della produzione almeno nel campo della letteratura e delle discipline umanistiche.

È possibile andare avanti così? Non mi faccio illusioni, e questi ultimi anni hanno insegnato che non c’è confine al peggio. Tuttavia segni di allarme ci sono, benché si levino sinora più dal mondo politico e civile che da quello, perlopiù beatamente incosciente, della letteratura. D’altronde anche questa separazione di ambiti è un segno dei tempi, e a essa sono dovuti, almeno in parte, la sordità e il ritardo stessi dell’ambiente letterario e artistico.

Questa stessa chiusura però oggi è minacciata. Ci si può illudere di vivere, come il postmodernismo ci aveva fatto credere, in un mondo esclusivamente linguistico di rifacimenti e di pure parole che si ripetono all’infinito quando il mondo si va palestinizzando, le nostre piazze, i nostri aeroporti e le nostre metropolitane sono a rischio, e intere popolazioni premono ai nostri confini? Si può continuare a coltivare la futilità e a giocare sull’orlo dell’abisso?

È successo altre volte che la storia salti una generazione. Nasceranno nuovi scrittori, e si impadroniranno della nostra lingua (già lo stanno facendo) giovani intellettuali albanesi e magrebini. Qualcuno forse ricomincerà a leggere Fortini e Sciascia, Volponi e la Morante, Vittorini e Pasolini.

18/02/2004








Postato il Domenica, 19 agosto 2007 ore 00:15:09 CEST di Silvana La Porta
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