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di a-oliva
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Nuove Tecnologie: Il sociologo Evgeny Morozov: 'Nessuno ci conosce meglio di Google'

Rassegna stampa
"Vengo dalla Bielorussia, che come molti sanno non è proprio un'isola felice di democrazia liberale: per questo sono stato sempre affascinato da come i nuovi media possano contribuire ad agevolare una trasformazione democratica. Ma poi ho scoperto che le dittature non cadono così facilmente e che le tirannie, spesso, si rafforzano con internet. Allora ho cominciato a studiare, da una prospettiva completamente diversa, come internet ostacoli la democrazia".

Con queste parole, pronunciate in occasione di una conferenza del 2009 a Oxford, si presenta Eugenij Morozov, sociologo, giornalista ed esperto in nuovi media di fama mondiale. Nonostante abbia solo 32 anni è internazionalmente riconosciuto come uno dei più lungimiranti studiosi di internet, e dell'impatto che le nuove tecnologie stanno avendo sul mondo contemporaneo; domani arriverà a Roma, per partecipare a un incontro dal titolo Tecnocapitalismo e Beni Comuni, all'interno del Salone dell'Editoria Sociale.

Per lo studioso bielorusso la nostra generazione e quelle future avranno un compito prioritario: spezzare una catena di ragionamento diffusa quanto fallace, che ci induce a pensare che, come negli anni '80 con l'avvento dei fax e delle fotocopiatrici, anche oggi, grazie a internet, l'uomo sarebbe radicalmente spinto verso una messa in discussione dell'ordine costituito. La cosiddetta "fallacia del liberalismo dell'ipad": credere che "un cinese o un iraniano che entrino in possesso di un ipad, comincino anche ad amare la democrazia liberale." In realtà le cose sono più complesse e nel suo ultimo libro, Silicon Valley, i signori del Silicio, Morozov ci fa aprire gli occhi su un inquietante intreccio che lega il progresso tecnologico e il capitalismo più sfrenato, e su come gli interessi economici riescano a subordinare l'impiego e la destinazione delle tecnologie stesse per corroborare un sistema monopolistico.

L'asserto di base del suo pensiero è semplice: la tecnologia è in mani private, ed è concentrata nella Silicon Valley.
Quest'ultima rappresenta una sorta di nuovo Welfare State: gli individui, cioè, non potendo più contare sulle garanzie di uno stato sociale in tempi di crisi generalizzata cercano nella tecnologia quelle facilitazioni e quella convenienza economica che può semplificare la loro vita. In questo senso, seguendo un processo che asseconda la deriva individualistica della società contemporanea, Silicon Valley si sostituisce allo stato, inventandosi come dispensatore di welfare, ma in cambio ci priva della nostra privacy, che viene trasformata in pubblicità.

Si pensi ad esempio alla funzione preponderante dei social network nel contesto odierno. La narrazione che viene offerta all'utente è quella che i social rappresentino una modalità gratuita per potenziare un'esigenza primaria dell'essere umano: la comunicazione. Il prezzo che viene pagato da ogni utente per questa apparente gratuità è poco appariscente ma di grande rilevanza: la condivisione di qualsiasi tipo di informazione personale.
Maggiori sono i clic dell'internata, maggiore la mole di informazioni private che vengono consegnate alla rete. In questo senso la Silicon Valley è un unicum nel mondo: una vera e propria infrastruttura, costituita da una rete di aziende, impegnata nel raccoglie dati con sensori che stanno nelle auto, negli smartphone, nei termostati. Secondo Morozov non c'è nessuno al mondo che ci conosce meglio di Google, vera e propria banca dati delle nostre ricerche on line, capace di sapere cosa vogliamo e come viviamo, cosa ci spaventa e cosa compriamo. E questi sono i dati alla base di qualunque business: energie, trasporti, sanità, istruzione. Chi ha le informazioni riveste un ruolo chiave e sviluppa una capacità predittiva che va ben oltre il campo economico, capace di influenzare il corso stesso degli avvenimenti.

Ma qual è la mentalità che informa questi incredibili collettori di informazioni? Secondo Morozov quella del capitalismo cognitivo, che mina fortemente la possibilità dello sviluppo di valori come l'uguaglianza sociale, e che di fatto tende a perpetrare, sotto nuove forme, il tradizionale meccanismo di accumulo della ricchezza nelle mani di pochi. La stessa sharing economy, basata sullo scambio di beni materiali e servizi, alternativo ad un approccio consumistico, nasconderebbe l'insidia del progressivo svuotamento dei diritti del consumatore: "Prendiamo come esempio il servizio dei taxi - ha dichiarato tempo fa in un'intervista - oggi c'è un pacchetto di regolamentazioni che impone i diritti dei consumatori; insomma, l'autista non deve discriminarti etc. Ma con un servizio come Huber, per esempio, tutte queste tutele svaniscono, e di conseguenza calano i diritti del passeggero. Huber può escludere tutti i passeggeri secondo criteri arbitrari: e se si comincia a universalizzare la logica della sharing econmy al di la dei taxi, la cosa diventa preoccupante."

Alla base del pensiero di Morozov, a torto indicato a seconda delle occasioni come estimatore o detrattore della tecnologia, c'è la constatazione che per quanto il progresso possa rappresentare un fattore positivo, è solo l'utilizzo che se ne fa, la sovrastruttura economica che lo assorbe, a determinarne il valore e l'impatto sociale. In questo senso la domanda da farsi non è tanto "hai paura che gli algoritmi rimpiazzino l'uomo?", quanto quella sull'assetto socioeconomico che ci consentirà di destinare alle macchine i lavori meno appetibili, per migliorare la nostra condizione umana e non per ritrovarci in un mondo di robot che ci hanno tolto il lavoro: "Non e' un problema di tecnologia ma un problema di capitalismo, bisogna cambiare l'economia, non la tecnologia. Bisogna parlare del rapporto che c'è tra l'automazione e l'economia. La critica all'automazione in se è conservatrice: anziché parlare di economia e di revisione del capitalismo ci fossilizziamo su aspetti marginali o sensazionalistici del tipo 'il robot sostituisce l'uomo'".

E la critica di Morozov, in uno scenario contemporaneo dove la Silicon Valley si erge spesso a paladina del progresso, risuona ancora di più come il monito a svegliarsi dal un lungo sonno della ragione. Secondo il sociologo non c'è differenza tra quello che le aziende californiane del silicio fanno oggi e quello che l'America faceva negli anni '60: espandere il proprio modello in maniera imperialistica. La narrazione del capitalismo trionfante che informa la storia Americana dell'ultimo secolo (e da un po' anche quella Europea) ci dovrebbe stimolare una semplice domanda: "Vogliamo vivere così?". La risposta potrebbe aprire spiragli di un futuro migliore: "Dobbiamo essere in grado di sognare di meglio, che non sognare il sogno della Silicon Valley". Parola di Morozov.

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Postato il Domenica, 06 novembre 2016 ore 13:00:00 CET di Michelangelo Nicotra
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