A) I
paradigmi
Nella lunga storia dei tentativi di riforma della Scuola Italiana hanno
operato più o meno esplicitamente due principi orientativi, due
"paradigmi": la licealità e la semplificazione dell'offerta formativa.
Si comincia nel lontano 1969. A Frascati un selezionato gruppo di
studiosi, al termine di un celebre colloquio internazionale, aveva
stabilito che:
1) la Scuola Secondaria deve costituire una
struttura unitaria articolata nel suo interno tramite un sistema di
materie comuni, altre opzionali ed altre ancora elettive, tali da
assicurare un progressivo orientamento culturale in direzioni
specifiche;
2) Le scelte degli alunni integrano un asse culturale
comune costituito da saperi linguistici - logici - matematici,
tecnologici e scientifici;
3) La Scuola Secondaria Superiore dà un
diploma, con menzione dell'orientamento conseguito;
4) Gli studi
secondari non hanno per se stessi, carattere professionale. La scuola
però offre possibilità di uscite laterali,che sfociano nella formazione
professionale vera, devoluta alle Regioni;
5) La formazione tecnica e
professionale di più alto livello si svolge nell'ambito dell'università
o a livello universitario mediante corsi biennali o triennali sempre
aperti al proseguimento verso la laurea.
Non è difficile intravedere nei propositi di riforma della scuola,da
quel lontano '69 ad oggi, l'intenzione di tradurre quegli orientamenti
in strutture del sistema di istruzione e formazione. Lo sviluppo della
scuola, però, è andato in senso contrario alla semplificazione,
all'architettura razionale e aerea del doppio canale, alla panacea
della licealità per tutti, o quasi tutti. Fino al termine degli
anni '90 è cresciuta impetuosamente l'istruzione tecnica, coprendo una
percentuale elevata della popolazione scolastica; si è ristrutturata e
riarticolata l'istruzione professionale statale, con una ricchezza
significativa di proposte curriculari. Si è diffusa, con diversi gradi
di efficacia e di adeguatezza la formazione regionale,soprattutto nelle
Regioni del Nord.
Alla realtà variegata di bisogni formativi, tipica di una società
complessa e matura ha corrisposto una variegata realtà di proposte
curriculari. Nella ormai lunga storia delle innovazioni della scuola
italiana per un verso si è cercato di razionalizzare, di semplificare
il sistema formativo; per un altro verso, per necessità e per
dare una risposta concreta e immediata a problemi di nuovi fabbisogni
professionali, si è dato inizio ad una proliferazione di
percorsi curriculari di diversa intensità (laboratori, aumento
degli orari, nuove discipline,nuovi indirizzi), che hanno reso più
complesso il quadro generale dell'istruzione secondaria superiore.
Questi due processi sono ancora in atto e forse non è augurabile
che uno di essi prevalga sull'altro, perché sono tutti e due richiesti,
di volta in volta, dalle esigenze espresse dai mutamenti della società.
Se si dice per definizione che il mondo è complesso, in perenne
trasformazione tecnologica, in continuo arricchimento di beni,
servizi, consumi, in continuo sviluppo di conoscenze, di saperi, di
scoperte, il sistema formativo ad esso speculare non può essere
semplice né semplificato una volta per tutte. L'esigenza di dominio e
di controllo della molteplicità dei percorsi formativi, che produce
continuamente desideri e ipotesi di razionalizzazione, prima o poi
entra in rotta di collisione con la necessità strategica di seguire, di
assecondare il mondo che cambia.
Nel corso storico della scuola italiana, intorno all'asse dei curricoli
nazionali creati per sostenere lo svolgimento delle funzioni pubbliche
e la formazione della coscienza e dell'identità nazionale
(elementari/licei) si sono subito aggregati i curricoli delle
professioni, i cui saperi avevano trovato un certo equilibrio e una
loro apprezzabile consistenza e stabilità (Ragioneria, Agrimensura).
Accanto ad essi sono sorte nel tempo nuove proposte formative, che
scaturivano "naturali" da nuovi settori produttivi, da trasformazioni
tecnologiche, da nuove realtà economiche, da nuovi impulsi sociali e
che avevano caratteristiche non sempre paragonabili a quelle del
primo settore di studi tecnici.
Alcuni curricoli sono definibili a priori in funzione dei compiti che
in una società devono essere necessariamente assolti; altri sono
definibili solo a posteriori e sono di fatto corrispondenti alle varie
aree dei saperi, delle tecniche e dei bisogni umani e sociali di una
società in un dato momento storico; sono teoricamente variabili di
numero, di estensione, di qualità, di struttura, di durata.
Per quanto si sappia leggere nel futuro delle linee di tendenza dello
sviluppo di una società, l'operazione di predeterminare per sempre per
i curricoli il loro destino, il loro percorso, il loro numero è
destinata al fallimento e non ha alcun senso. La complessità e la
diversificazione dei saperi, prodotte dall'incessante impegno della
ricerca scientifica e culturale segnano tappe irreversibili di
sviluppo, di progresso, di civiltà. La scuola non può che seguirne
l'itinerario e certamente non può pretendere di contrastarne il passo.
B) LA LEGGIADRIA DEL NOME
"Ma io ti concedo di imporre ciascun nome come vuoi. Fa solo capire a
cosa riferisci il nome che usi.." (Platone "Carmide" 163D).
Fin dalla costituzione del sistema scolastico nazionale
l'organizzazione degli studi secondari è stata caratterizzata da una
netta separazione e distinzione di compiti tra istruzione liceale e
istruzione tecnica e professionale (variamente denominata). Hanno
avuto,
infatti, curricoli diversi, a volte di diversa durata, e diversa
specifica destinazione sociale. Tale diversità, funzionale e sociale,
ha fondato la gerarchia e il prestigio degli indirizzi di studio
oltreché del nome che gli è stato dato.
Tra istruzione tecnica e istruzione professionale quasi subito si è
venuta a formare una differenziazione, che non era da attribuire sempre
alle finalità dei corsi di studi, ma all'opportunità di distinguere ciò
che era disciplinato dallo Stato (istituti e scuole tecniche) e ciò che
era lasciato alla libera spontaneità delle proposte formative, che
provenivano dal mondo del lavoro e dagli enti locali. Per tali motivi,
in alcuni casi, la distinzione dei compiti tra i due ordini di
istruzione era abbastanza sfumata, anche se su questa si è nel tempo
costruito un vasto edificio di norme e di regolamenti.
Per essere oggetto di disciplina statale e per far parte
dell'istruzione tecnica, il curriculum relativo ad una certa
professione doveva avere una certa stabilità, un certo grado di
maturità, così da essere generalizzabile su tutto il territorio,
individuabile quanto alle funzioni che avrebbe permesso di
svolgere, a contenuti e a modalità di organizzazione didattica.
Nell'istruzione tecnica sono entrati così di volta in volta professioni
e mansioni di un certo rilievo, richiedenti un certo bagaglio culturale
e certe abilità inquadrabili in titoli professionali, regolati
anche sotto l'aspetto dell'esercizio professionale.
Nella formazione professionale invece sono entrate le mansioni delle
attività, dai contenuti più vari, mutevoli o più semplici la cui
preparazione poteva essere acquisita a scuola e fuori dalla scuola, con
lo studio e la pratica o solo con la pratica.
L'istruzione tecnica non è stata mai all'apice della gerarchia del
sistema scolastico. Alcuni indirizzi di studi tecnici, funzionali alle
esigenze del sistema produttivo e distributivo, prima di assurgere
stabilmente alla gloria e alla dignità di istituzione del Ministero
della P.I. hanno dovuto sottostare per molti anni alla tutela e alle
cure dei vari ministeri economici, privi notoriamente di preoccupazioni
educative...Secondo i tempi, le vicende politiche e le necessità della
società italiana, prima della definitiva riorganizzazione di tutta
l'istruzione tecnica e professionale, operata con la legge n.889 del
1931, alcuni tipi di istituti tecnici sono transitati dai ministeri
economici a quello dell'istruzione e viceversa.
La prevalenza degli elementi teorici su quelli pragmatici nelle
discipline scolastiche era l'elemento costitutivo della gerarchia degli
indirizzi di studio. Non tutti i giovani erano destinati a svolgere
attività manuali, esecutive e pratiche di vario livello. C'era chi era
destinato a "vedere (theorein) il mondo dall'alto della propria
posizione sociale. La considerazione restrittiva sul valore
dell'istruzione tecnica e professionale affonda le radici nella
secolare storia delle divisioni sociali della nazione e dei pregiudizi
culturali ad esse collegati.
Eppure l'aggettivo "tecnico", che deriva dalla parola greca "techne" ha
una sua nobiltà e un significato profondo, che meriterebbero di essere
strenuamente difesi e riproposti. Fin dai suoi primi esordi culturali
"techne" (la tecnica - l'arte) indica un'attività razionale, che ha
conoscenza dell'oggetto cui si rivolge, della natura delle cose che
consiglia, delle ragioni di ciascuna cosa che tratta. L'attività
"tecnica" si distingue dall'empeiria", dalle pratiche empiriche, che
procedono per intuizioni, per accostamenti casuali, che si fondano
sulle qualità estrinseche del cose e non sulla conoscenza della loro
essenza. (Platone, "Gorgia" 465A) Le "tecniche" comandano e
controllano l'oggetto di cui sono "tecniche" (Platone "Repubblica"
libro I 342C).Le parole ,che oggi traducono bene "techne", sono
arte(nel senso anche di mestiere) e competenza.
La storia della scuola, e non solo quella, ci ha consegnato,
un'accezione riduttiva del significato dell'aggettivo "tecnico", per
cui si pensa di tanto in tanto di cancellarlo dal vocabolario ufficiale
della scuola, invece ripristinarne le ricche e complesse valenze
semantiche. Si perpetua, così, l'adesione ad un vecchio pregiudizio.
Negli ultimi tempi si è pensato di ricorrere all'aggettivo
"professionale" per designare complessivamente l'istruzione e la
formazione erogate dalla scuole, che preparano i giovani per il mondo
del lavoro. E' un tentativo alquanto ardito, che servirebbe soltanto
per occultare l'eventuale eliminazione fisica della più originale
creazione della scuola italiana: quell'ordine di istruzione, che
quasi da solo, ha dato all'Italia l'infrastruttura intellettuale della
sua modernizzazione: i ragionieri, i geometri, i periti industriali, i
periti agrari, i periti minerari. I problemi che si nascondono
dietro i nomi sono questi:
1) L'attuale tecnico intermedio, in caso
di cancellazione dell'istruzione tecnica, potrà essere sostituito dal
"qualificato" del sistema professionale (statale e/o regionale)? Potrà
essere, in alternativa, formato nel 1° ciclo dell'università?
2)
Il deficit di formazione tecnica e professionale, di cultura
tecnologica della società italiana può essere colmato dall'attuale
ordinamento degli studi ?
3) Se la formazione professionale non è solo
addestramento, ma vuole indicare diversi gradi (per complessità,
durata, stabilità) di cultura professionale, come si può valorizzare
la varietà e la ricchezza dell'attuale sistema scolastico e
formativo, senza ritornare alla duplicità e alla ridondanza di
curricoli più o meno simili?
La formazione tecnica e professionale, di necessità legata al mondo del
lavoro, è determinata da molteplici fattori tutti in movimento
(organizzazione produttiva, applicazione delle tecnologie, assetti
economici-sociali del territorio, movimenti culturali e scientifici) e
non è definibile per sempre e a priori. Deve essere funzionale alle
esigenze specifiche di preparazione (conoscenze, competenze,
atteggiamenti, valori) che emergono in un particolare momento storico
della società.
La qualità e l'estensione dell'istruzione tecnica e
dell'istruzione professionale sono da sempre risorse indispensabili per
avviare politiche serie di sviluppo economico e sociale e forse tra le
poche opportunità che si hanno per combattere la disoccupazione
giovanile.
prof.
Raimondo Giunta