Si chiudevano
vivacemente gli anni Sessanta dello scorso secolo quando cominciavo il
mio insegnamento di storia nei licei. Non avendo alcun pregiudizio
culturale né alcuna fede ideologico-politica, ma una grande
spregiudicatezza, consideravo con pochissimo entusiasmo l’epopea
risorgimentale, convinto che il meridione d’Italia (Napoli ancor più di
Palermo) avesse perduto molto nel processo di unificazione. Quel che
oggi rappresenta un manifesto politico seppur di pretestuosa minoranza
(“i Borboni stavano ed erano meglio dei Savoia”) a me sembrava allora
una, seppur dubbiosa, considerazione storica da fare. Molti gli
elementi a favore del Sud. La stessa struttura urbana di Napoli ed il
suo splendore artistico, le tecnologie avanzate per i tempi ed i
trasporti terrestri e marittimi, il carattere accomodante ma a
volte risoluto della popolazione. Una storia di civiltà, insomma. A
sfavore del profondo sud gravava (come oggi) l’assenza di una borghesia
che sostituisse l’aristocrazia feudale e che sorgesse per evoluzione
civile dalla plebe contadina o dalla schiavitù operaia e mineraria.
Fatta eccezione, per quella classe di mediatori economici tra cui si
sviluppò l’attuale classe finto borghese a sud come a nord. Quando
smisi di vituperare il fatidico incontro tra il repubblicano Garibaldi
ed il Savoia a Teano, che segnò la consegna del Sud strappato al
Borbone, per offrirlo alla monarchia sabauda che sarebbe così
diventata, grazie al Cavour, l’artefice del regno unitario? Qualche
tempo dopo. Quando compresi dalla letteratura verista e realista di
fine Ottocento e primo Novecento che la colonizzazione del Sud
fatta di rapina e di leva militare obbligatoria poteva poco a poco
aprire nuovi orizzonti in positivo e favorire seppur lentamente la
nascita di una nazione. Bisognavano dei correttivi, tentati a cavallo
tra ‘800 e ‘900 da Crispi a Giolitti, ma non sufficienti. Al recupero
sociale e civile del Sud, sul piano strutturale, si sostituì la
conquista e la colonizzazione di una parte dell’Africa, saltando un
passaggio, tra nazionalismo e imperialismo, che gli altri Paesi europei
avevano compiuto in tanti decenni: la costruzione di uno stato
unitario, sul piano economico, sociale, civile. I modesti tentativi
mussoliniani di dare infrastrutture al Sud ripercorrendo la strada
imperialista romana (il sud come granaio dell’impero) fallì miseramente
e rappresentò un inutile intervallo tra i due massacri della gente del
sud: la prima e la seconda guerra mondiale. Dal nuovo stato nato dalla
Resistenza ad oggi non sono mancati i personaggi che potevano dare un
colpo d’ala verso la costruzione della nazione che integrasse il
mezzogiorno. Ma pochi hanno avuto rilievo nazionale, mentre alcuni si
orientavano più verso l’Europa che verso il Sud. Penso a Sturzo o a De
Gasperi o a chi si lasciò assorbire da un localismo “mistico” come
Giorgio La Pira. I potentati economici, intanto, a sud si consolidavano
con l’appoggio mafioso e cercavano riconoscimento nazionale
colonizzando, in termini mafiosi, il Nord. A che punto è dunque oggi
l’unificazione nazionale? È difficile dirlo. Non c’è più un modello
economico, né unitario né localistico, definito. L’Italia cioè
differisce economicamente da Paesi come l’Austria, il Belgio ed altri
piccoli Stati europei che vivono felicemente senza grandi produzioni o
trasformazioni industriali. È fallito pure il tentativo di localizzare
l’economia agricola in zone precise e lo sfruttamento industriale in
altre. L’unico bene diffuso, l’arte e la cultura, è in quasi totale
abbandono. Si vive quindi di amministrazione, speculazione bancaria,
delocalizzazione produttiva e sfruttamento industriale esterno. Le
piccole e piccolissime imprese diffuse oggi in Veneto come già in
Emilia, o più o meno in tutto il nord, sopravvivono faticosamente se
non assistite. Resta l’ideale del federalismo regionale, allo scopo di
imporre rigore, riduzione degli sprechi, ottimizzazione di risorse e
servizi. È la nuova strada che tutti indicano per la equilibrata
costruzione (finalmente!) dello Stato unitario. Sarà possibile?
Sensato? Efficace? Chi vivrà vedrà. Dipenderà anche, in gran parte,
dalla onestà e grandezza degli amministratori locali. Comunque vada,
ricreare la superiore civiltà preunitaria del Sud staccandosi dal Nord
e dal Centro non mi pare oggi tanto possibile e sensato. Sicuramente è
antistorico e utopistico. Varrà bene per qualche personaggio politico
che vuole farsi strada solleticando un mai sopito quanto inutile
orgoglio della gente del Sud.
Roberto Laudani
robertolaudani@simail.it