La
leggerezza e l’eleganza di un minuetto per una partitura ironica e
sorniona.
Jean Luc Benoziglio, formidabile manipolatore del linguaggio nella
forma dell’antiromanzo, arriva nelle librerie italiane con “Il Re di Francia, seguito e fine”
per i tipi delle Edizioni Casagrande di Bellinzona.
Proprio attraverso la demistificazione del racconto tradizionale – il
narratore è tanto accurato quanto inattendibile – Benoziglio ci
consegna una Svizzera distopica nella quale, sulle rive di un minuscolo
villaggio sulle rive del Lago di Ginevra, arriva a scontare un
(improbabile) confino, nientemeno che Sua Maestà Luigi XVI: finito in
realtà, nel gennaio 1793, sulla ghigliottina di Piazza della
Rivoluzione, oggi, per l’ennesima astuzia della storia, intitolata alla
Concordia.
Già l’esergo, con la citazione
da Luciano di Samosata – sorta di divertente captatio auto-celebrativa e al
contempo spia narrativa programmatica – appare funzionale ad una storia
che vuole sembrare epica (e che lo è…) non fosse altro che per lo stile
anaforico, avvolgente e - nonostante l’aplomb stilistico finemente
illuminista - sardonica: il ghigno raffinato dell’autore si sprigiona
da ogni pagina e lungo i cinque anni di vita supplementare che
Benoziglio immagina per Luigi Capeto.
In questa compassata, divertente e atipica cronaca a posteriori in cui
invenzione e accurata ricostruzione storica, menzogna canagliesca e
austero resoconto trovano un equilibrio nella logica assurda della
fantastoria - una fantastoria discreta e quindi assai subdola perché
possibile… - il lettore si trova immediatamente a suo agio, nonostante
le nebbie di Saint Saphorien, luogo sospeso nel tempo e nell’umidità
che accoglie l’esilio, questa specie di “morte bianca”, comminato a
Luigi Capeto dalla Convenzione e paesello dove la “Rivoluzione si era
fermata sulla soglia”.
Già l’ex abrupto del
vertiginoso incipit, insieme a tutta una serie di suggerimenti (E non rientra nella nostra etica concedere
la parola, per renderci interessanti e assecondare qualche vanagloria,
a coloro che all’epoca dei fatti qui riportati non erano ancora
venuti al mondo..) hanno il compito di presentare
antifrasticamente il giovane sovrano in cui l’impenetrabile faceva a gara con l’indolenza.
Abbandonato dalla real famiglia (Senza
risalire agli Atridi - chiosa deliziosamente l’io narrante - la famiglia è il peggior covo di vipere…),
costretto ad abitare una stamberga abbandonata, nonostante la pompa
magna dell’iscrizione, Io e la mia
casa adoriamo l’Eterno (forse perchè situata proprio di fronte
al cimitero…), il povero ex-sovrano si ritrova a condurre una vita in
disparte, spingendo i suoi giorni nel vuoto dell’unica locanda se si
esclude il montare e riparare serrature e lucchetti (l’arte del
magnano, oh, che occupazione plebea!), godere del paesaggio (si fa per
dire) e accettare un invito a cena poi rivelatasi catastrofica e che è
tra le pagine più irresistibili del romanzo.
Nel contrappasso della scrittura di Benoziglio, Luigi XVI appare
l’ombra del sovrano forsennato che aveva illuso i monarchici
costituzionali, screditato l’Assemblea Nazionale e tentato, alla fine,
di fuggire a Metz. Ce lo ritroviamo invece a passeggiare sul balcone,
con l’immancabile parrucca, a leggere resoconti di viaggio, a
consultare mappe geografiche, intento agli studi di fisica e di chimica
nella sua umillima dimora che solo la presenza di Aline, graziosa, timida e avvampante piccola Aline,
rende meno tetra. Il sadismo della burocrazia bernese – che Benoziglio
insieme alla Svizzera scudiscia con inesausto sarcasmo: la Svizzera, a parte i mercenari,
si chiede a un certo punto, è anche
un paese? - gli vieta pure la caccia, sua grande passione e,
dulcis in fundo, un concerto a Montreux: la nostalgia dell’adagio del
secondo movimento del Concerto in La maggiore di Mozart avrebbe
inseguito il monarca esiliato per sempre.
Insomma ci si annoierebbe a morte su quelle sponde elvetiche, non fosse
per alcune macchiette davvero straordinarie che oscillano dalla
compostezza del notaio Roland alla prosopopea del dottor Meillerie,
dalle sfumature repubblicane del maestro Fontanet, fino al disprezzo
giacobino, o quasi, di Jaccoud.
In un clima tanto gelido (meglio: scostante) al povero Capeto, questo ci-devant mite e discreto, non
resterebbe che fare da spaventapasseri
alle vigne, non fosse appunto per i siparietti ammiccanti e
simpatici della spigliata servetta, sorta di protagonista di un romanzo
parallelo, di un testo fantasma che può prendere il posto di
quello reale: di un romanzo che, se non deve essere redatto, deve
almeno essere scoperto o ritrovato: ah, se il Beaumarchais che va a
trovare Capeto avesse scritto Il
Recluso di Saint Saphorin…
“Il Re di Francia, seguito e fine” è dunque un libro godibilissimo, nel
quale la girandola di personaggi (anche storici) e di situazioni (anche
anacronistiche) ruotano attorno al protagonista come un satellite
intorno al suo astro: e la lettera vergata dal re in persona è un vero
e proprio coupe de theatre
che si autorivela mistificante bluff nella firma di Luigi Capeto, pensionato (il corsivo è nostro);
un libro in cui i ministri (e Turgot, nientemeno!) appaiono in sogno al
sovrano e nel quale Benoziglio cita Chenier e Moliere e, senza
disdegnare Joyce, Queneau e Perec, mentre lo spirito di Sterne aleggia
piacevolmente, impasta una sestina di Voltaire (?), inframmezzando il
latino con il francese curiale, Erodoto e Napoleone.
Grande merito anche alla traduttrice Maurizia Balmelli che si è fatta
carico di un compito arduo: tradurre in italiano una narrazione
policroma, restituendo nella maniera più credibile l’energia di uno
stile inimitabile.
Giuseppe Condorelli
condorg@tiscali.it