Quando,
negli Anni Settanta, si temeva l’effetto esplosivo di una miscela fra
crisi economica e terrorismo, i vecchi democristiani - che erano al
governo e ne sapevano una più del diavolo - rassicuravano: «Tranquilli,
finché mangiano tre volte al giorno, gli italiani non faranno mai la
rivoluzione». Oggi forse i tre pasti quotidiani non li abbiamo ancora
persi, ma cominciano guerre mai viste neppure negli Anni Settanta:
guerre fra poveri, e soprattutto fra generazioni.
Una di queste guerre è scoppiata ora nel mondo
della scuola: da una parte i precari e dall’altra i disoccupati, o
meglio i giovani in cerca di un primo impiego. In brutale sintesi il
fatto è questo: il governo ha deciso di dare finalmente un posto fisso
alle migliaia di precari che da anni popolano, tra proteste e
rivendicazioni, il mondo della scuola. Benissimo. I precari sono
contenti e i sindacati applaudono.
Ma sono furenti i neolaureati o neolaureandi che vorrebbero diventare
insegnanti: si vedono le porte sbarrate per chissà quanti anni perché
la coperta è corta, e se si assumono i precari non c’è più spazio per
nuove assunzioni.
La protesta è partita dai giovani del Clds, che vuol dire Coordinamento
liste per il diritto allo studio, e che poi vuol dire anche gli
studenti di Comunione e Liberazione. Ma in un battibaleno l’onda è
andata ben oltre il popolo ciellino. Sul sito www.appellogiovani. it
c’è da mercoledì scorso una sorta di manifesto intitolato «L’Italia è
un Paese per vecchi?», nel quale si suppplica un ripensamento da parte
del governo. «Entro il prossimo mese di ottobre - è scritto
nell’appello - il ministro Gelmini firmerà il decreto che avrà
l’effetto di escludere per diversi anni le giovani generazioni
dall’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado». In
pochi giorni all’appello-denuncia hanno aderito diecimila persone, tra
cui numerosi professori e rettori, ma anche direttori di giornali
(Tarquinio di Avvenire e Cusenza del Mattino), scrittori (Eugenio Corti
e Alessandro D’Avenia), attori, imprenditori, personalità da sempre
legate a Cl come Giorgio Vittadini ma anche politici certamente non
vicini a Cl come l’ex presidente della Camera Luciano Violante; e poi
banchieri come Corrado Passera, e così via.
I numeri in effetti non sembrano dare molte speranze a chi ha studiato,
o sta studiando, per diventare insegnante: «Il fabbisogno nazionale
previsto per i prossimi anni è pari a circa 230 mila insegnanti; il
numero dei docenti abilitati e non ancora entrati in ruolo è di 230
mila», è spiegato in un documento del Clds. Siccome la matematica non è
un’opinione neppure nella scuola di oggi, «gli accessi all’abilitazione
saranno pressoché nulli fino a quando non verranno riassorbiti tutti i
precari».
«Per nuove abilitazioni e nuove assunzioni, insomma, ne parliamo fra
dieci anni», ci spiega Francesco Magni, 24 anni, studente di
giurisprudenza alla Statale di Milano e presidente nazionale del Clds.
«A giugno - racconta - abbiamo visto le tabelle che stimano il
fabbisogno di insegnanti, dalle elementari al liceo, per i prossimi tre
anni. Facciamo l’esempio della Lombardia: a parte i precari che
verranno immessi in ruolo, resteranno due posti per professori di
storia dell’arte, zero per lettere, zero per greco e latino, sette per
matematica».
Ma a fronte delle ragioni degli universitari in fermento ci sono quelle
dei precari: e sono ragioni forti di anni di attesa. Quest’anno
diventeranno di ruolo 67 mila precari: 30 mila insegnanti e 37 mila
bidelli. Altri sono in lista d’attesa, e che abbiano il diritto di
avere finalmente un posto sicuro non è in discussione. «Non vogliamo
togliere il pane di bocca ai precari - dice Magni - ma ci chiediamo se
sia giusto precludere a un’intera generazione un intero settore del
Paese. E se sia giusto che a pagare il conto di tanti errori del
passato dobbiamo essere solo noi. Sappiamo che la nostra generazione
avrà più difficoltà delle precedenti. Ma un conto è avere difficoltà,
un altro e vedersi negata a priori la possibilità di giocarsela».
Come finirà? I promotori dell’appello propongono di avere almeno la
prospettiva dell’abilitazione all’insegnamento, per poi mettersi su un
mercato che oltre ai diritti acquisiti difenda anche il merito. Dicono
che se le cose non cambieranno a essere danneggiati non sarebbero solo
loro, ma tutta la scuola, che finirebbe con l’avere presto un corpo
insegnanti con un’età media superiore ai cinquant’anni.
Per il momento in questa battaglia gli studenti-aspiranti-insegnanti
sono soli. O meglio, hanno il sostegno dei molti che firmano l’appello:
ma non quello della politica. La Gelmini ovviamente è furibonda, anche
perché dai ciellini questo attacco non se l’aspettava; quanto ai
«colleghi» studenti, quelli di destra stanno con il ministro, quelli di
sinistra con i sindacati. Già, i sindacati. Ieri Massimo Di Menna,
segretario generale della Uil scuola, ha detto al Giornale: «Abbiamo il
dovere di non illudere i giovani». Giusto. Ma qualcuno avrà pur anche
il dovere di dare loro una possibilità
(da La Stampa di Michele Brambilla)
redazione@aetnanet.org