I test mi
dispiacciono perché mi umiliano; non è tanto il fatto che non mi
paghino due pomeriggi della mia vita (in cui probabilmente sarei a casa
a correggere altre cose); è il fatto che quei due pomeriggi io li passi
mettendo crocette nei cerchietti con la bic nera. Non dico che sarebbe
capace qualsiasi scimmia, però uno scanner di sicuro sì, uno scanner lo
farebbe più rapidamente e meglio di me – in effetti la scheda
meccanografica serve esattamente per questo, è organizzata in
cerchietti proprio per essere più facilmente riempita e digerita da un
meccanismo. Ma la riempio
io.
Mi sento come il bue da traino a cui attaccano un'automobile, e
il padrone dice che è tutto ok, è il progresso. E mi va bene che sono
ancora nel fiore degli anni; ma vogliamo parlare delle mie care
colleghe che vanno per la sessantina e devono passare due pomeriggi a
crocettare dei pallini? Date le premesse, mi fa quasi
tenerezza chi in questi giorni parla di boicottaggio dei prof o
degli studenti. Il vero boicottaggio dell'Invalsi lo sta praticando il
Ministero della Pubblica Istruzione, che invece di dare ai suoi
dipendenti uno straccio di motivazione, ci precetta e pretende di
usarci come scimmie ammaestrate – senza nemmeno offrirci le noccioline.
Il ragazzo più preparato del mondo può riempire di crocette giuste il
test Invalsi meglio preparato del mondo: poi entra in campo la prof
iper-presbite, sbaglia una crocetta su due, ed ecco che i risultati
della prova Invalsi non ci dicono più nulla di interessante. Ma perché
non usiamo gli scanner?
Perché costano. Neanche tanto, probabilmente. Ma precettare gli
insegnanti invece costa, al Ministero, un totale di euro zero. Un bel
risparmio, che consentirà al Ministro di pagare ancor più
profumatamente un sacco di studiosi della valutazione per distillare
informazioni da tutti i cerchietti che abbiamo crocettato male.
Eppure malgrado tutto i test mi piacciono, perché sono prove di
comprensione, e secondo me ne abbiamo un grande bisogno. In Italia
diamo ancora molta importanza alla produzione scritta: sin dalle
elementari pretendiamo di valutare i ragazzi da quel che scrivono, più
che da quello che riescono a comprendere. Per una singolare
coincidenza, siamo anche uno dei Paesi occidentali dove gli adulti
leggono meno (ma scrivono di più). Abbiamo più romanzi inediti nei
cassetti che aperti sul comodino. Ora io non voglio dire che la
produzione scritta non sia importante. Ma più passo tempo in classe più
mi rafforzo nell'idea che il primo problema dei ragazzi non sia
scrivere, ma capire. Quando cominciano a capire, cominciano a leggere
sul serio. Quando cominciano a leggere sul serio, di colpo scrivono
molto meglio. Ah, e migliorano anche in grammatica.
Perciò secondo me i test di comprensione non vanno sottovalutati: anche
quelli a crocette, sì. Non sono sempre telequiz; se sono ben fatti, ci
permettono di scoprire se il ragazzo capisce davvero quello che sta
leggendo. Una cosa che cominciamo a dare per scontata in seconda
elementare – e invece no, non è affatto scontata. Il test può essere
una doccia fredda per il docente. Non è purtroppo il caso di questi
test Invalsi, che si limitano a usare il docente come scimmia
ammaestrata male – per tutto un pomeriggio passato a crocettare
cerchietti non ho mai avuto modo di scoprire se le risposte dei miei
ragazzi fossero giuste o sbagliate.
Dunque: ben vengano i test di comprensione. Che non sono poi nulla di
particolarmente nuovo: si usano da sempre per la valutazione delle
lingue straniere (ebbene sì: dobbiamo accettare l'idea che per gli
studenti di oggi, irradiati sin dalla più tenera età da media più
visivi che scritti, imparare a leggere nella propria lingua non sia
molto diverso dall'apprendimento di una lingua straniera). E in ogni
caso test di comprensione se ne sono sempre fatti: le antologie
scolastiche della vostra adolescenza erano piene di domande, e c'era
persino qualche casella da barrare.
Molti che in questi giorni scelgono di parlare di scuola se ne sono
semplicemente dimenticati: il professor Ricolfi sfoglia un
manualetto per la risoluzione dei test e tra gli esercizi scopre
orripilato che si tratta di interpretare “un testo di previsioni
atmosferiche” e “usare una pianta di Roma per andare a un concerto allo
stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di
quindici anni”. “C’è da restare raccapricciati”, lamenta dal canto suo
il professor Giorgio Israel: "Un insegnante della secondaria superiore
dovrebbe smettere di insegnare la letteratura italiana, per insegnare a
leggere le istruzioni di un piano di evacuazione della scuola in caso
di calamità naturale, a individuare le informazioni nel dépliant di una
mostra, o a saper leggere una tabella di previsioni del tempo”.
Non so che quindicenni frequentino Israel e Ricolfi: magari sono
abituati a discettare di letteratura italiana delle origini con somma
competenza: in ogni caso siamo sicuri che siano in grado di leggere
davvero una previsione meteo? Che sappiano usare una cartina di Roma?
Sono competenze che, certo, non sostituiranno mai “la ricchezza
lessicale, la finezza argomentativa” (sempre Ricolfi) eccetera
eccetera: però sono pur sempre competenze che il mercato del lavoro
richiede, che tutti danno per scontate e che no, oggi non sono affatto
scontate. Soprattutto, ha senso intestardirsi a insegnare la
fondamentale letteratura italiana a chi forse non ha ancora capito come
si legge una previsione meteo? Perché io ho il tremendo sospetto che a
molti quindicenni di oggi a cui chiediamo pareri personali e articolati
su Pirandello o Manzoni (tutta roba facilmente raccattabile tra
wikipedia e yahoo answers, comunque) non sappiano davvero usare le
cartine e non capiscano un manuale di evacuazione in formato testuale:
spero ovviamente di sbagliarmi; non vedo l'ora che un test su base
nazionale mi dia torto (da http://leonardo.blogspot.com -
L'Unità)
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