Come molte
delle riforme “strategiche” che sono state adottate nel nostro
Paese, anche l’autonomia scolastica appare, ad oltre un
decennio dalla sua introduzione, una riforma dimezzata. Ha giocato
in realtà un ruolo importante nella storia scolastica degli ultimi
anni: vissuta come metariforma, più che come riforma in senso
stretto, ha di fatto consentito alle scuole di fronteggiare, in
modo sia pure non sempre organico e tempestivo, una realtà via via
più complessa e in rapida trasformazione.
Così la scuola secondaria superiore ha, nel tempo, differenziato e
articolato la propria offerta formativa con una miriade di
sperimentazioni, tentando di rispondere alle richieste dell’utenza
da un lato e alle esigenze del mercato del lavoro dall’altro;
mentre, nella nostra regione in particolare, la scuola primaria e
media hanno organizzato le proprie risorse di personale e di tempo
scuola per assecondare le pressanti richieste delle famiglie
e indirizzare al meglio la propria proposta
didattica.
I tagli continui, indistinti e generalizzati di organico e di
risorse finanziarie degli ultimi anni hanno sostanzialmente
vanificato quanto faticosamente costruito dalle autonomie
scolastiche e indotto le stesse ad una condizione di obiettiva
confusione nella quale è difficile, almeno per ora, intravedere un
chiaro disegno riformatore, così come la possibilità di esercizio
di effettive condizioni dell’autonomia.
Si tratta, pertanto, di ripartire, con ostinazione, dalla corretta
applicazione della norma (L 59/97, DPR 275/99, riformato Titolo V
della Costituzione) sostanzialmente e colpevolmente disattesa
nell’arco dell’intero ultimo decennio.
Deve innanzitutto essere ripresa e resa effettiva la
fondamentale suddivisione tra funzioni di indirizzo e di gestione.
Proprio con riferimento al processo di decentramento in atto e al
fine di evitare ulteriori frantumazioni del sistema, le prime
devono essere essenziali e di chiara lettura, ma anche
sufficientemente precise e opportunamente vincolanti su tutto il
territorio nazionale.
Non pare accettabile, ad esempio, che un segmento fondamentale
del nostro sistema scolastico quale la scuola primaria, si trovi
ad agire in un quadro di riferimento fin troppo ampio, confuso e
in qualche caso perfino contraddittorio, sia sul piano dei
contenuti programmatici, sia delle condizioni organizzative del
servizio offerto.
Si opera in assenza di indicazioni e programmi nazionali
credibili e praticabili, tali non essendo la sommatoria di
documenti quali le
Indicazioni Nazionali del 2004 e le Indicazioni per il Curricolo del
2007, che hanno origini e caratteristiche difficilmente
assimilabili.
Così come le condizioni organizzative del servizio presentano una
base eccessivamente differenziata per presumere esiti omogenei e
confrontabili: si va dalle 24 ore alle 40 del tempo pieno,
passando per le 27 e le ore 30 settimanali e dal maestro unico a
una pluralità che raggiunge i 6 - 7 insegnanti, con quote di
compresenza che possono variare da zero a fino a
undici ore per classe.
La definizione dei livelli essenziali degli apprendimenti e
delle competenze, nel quadro di indicazioni curricolari
caratterizzate da essenzialità, trasversalità e continuità,
dovrebbe costituire la piattaforma comune e inderogabile su cui
costruire i percorsi curricolari delle autonomie scolastiche,
opportunamente costituite “in rete” su base territoriale.
Se omogenei e confrontabili devono essere gli esiti attesi dei
processi di insegnamento/apprendimento tali, pur se non uniformi,
devono necessariamente definirsi anche le condizioni organizzative
e le risorse (tempo scuola, organici, risorse materiali e
finanziarie) che ne consentono il conseguimento. Solo una
“struttura” curricolare solida e comune assicura
senso e significato ai progetti e alle iniziative locali che, grazie
alla vicinanza con il territorio e con le sue reali esigenze e
risorse, possono garantire un vero e proprio “valore aggiunto”
all’intera proposta formativa.
Il nostro è, fra i paesi ad economia avanzata, quello che presenta
il divario maggiore negli esiti di apprendimento fra le diverse
regioni del Paese: stabilito tale rapporto in 1:100 in Italia, si
va, ad esempio, ad un rapporto 1 : 46 in Spagna, nazione che sta,
peraltro, intensificando gli sforzi per ridurre le differenze
(dati OCSE PISA 2006). E’ di chiara evidenza il rischio di avviare
processi di decentramento delle funzioni e di potenziamento delle
autonomie scolastiche senza contestualmente rinforzare gli
elementi di coesione e di unitarietà del sistema. Valorizzazione
piena, quindi e traduzione operativa delle funzioni proprie dello
Stato di indirizzo, coordinamento,
verifica-valutazione, riequilibrio e redistribuzione delle
risorse. Sono funzioni fondamentali, oggi insufficientemente
praticate e altrettanto scarsamente rilevabili e
percepibili dalle autonomie scolastiche e locali. Ampiamente
rilevabili e percepibili sono invece le funzioni,
sempre esercitate dallo Stato, di natura più squisitamente
gestionale, le stesse che
le regole del decentramento vorrebbero correttamente attribuite alle
già citate autonomie.
Così la risorsa per eccellenza, gli organici del personale, continua
ad essere gestita e assegnata dagli uffici periferici
dell’amministrazione scolastica sulla base di criteri obsoleti e
replicati da decenni che non hanno reale attinenza con le
effettive esigenze dei territori e con le scelte
programmatiche e didattiche delle scuole. Mentre le (sempre più)
modeste risorse finanziarie, quasi totalmente vincolate, non
consentono alle autonomie scolastiche di affrontare eventuali
emergenze, più frequenti di quanto non si creda, in termini di
tempestività ed efficacia, nè di
programmare seriamente il proprio miglioramento attraverso la
formazione in servizio, la ricerca, il rinnovamento dei laboratori
e delle tecnologie.
E’ certamente un’ autonomia di facciata quella che non può disporre
di risorse. Negli ultimi venti anni, paradossalmente proprio in
coincidenza con l’avvento dell’autonomia, la scuola e l’intero
sistema di istruzione si sono progressivamente impoveriti
(incidenza sulla spesa pubblica totale dal 10,3% del ’90 al 9% del
2008, a fronte di una media OCSE del 13,3%).
La centralità della scuola e dell’istruzione, così come la
realizzazione di una vera autonomia, non possono pertanto non
passare attraverso un incremento delle risorse a livello europeo e
la piena attribuzione alle autonomie scolastiche e locali delle
proprie prerogative progettuali
e gestionali (dagli organici funzionali di istituto ai piani di
sviluppo, ricerca, innovazione), in un contesto generale
opportunamente coerente e controllato.
E’, infine, assolutamente vitale evitare il rischio di
isolamento delle istituzioni scolastiche autonome e fare in modo
che le stesse, organizzate “in rete” (il concetto di “rete” è
complementare all’idea di
autonomia e ne costituisce il naturale completamento), possano far
sentire la propria voce in materia di scelte di politica
scolastica ai vari livelli, da quello locale (comune,
circoscrizione) fino a quello nazionale. La scuola pre-autonomia
disponeva di canali attraverso i quali esprimere proposte
e pareri, per quanto quasi sempre di natura solo consultiva (i
vecchi organi collegiali territoriali: distretto scolastico,
consiglio scolastico provinciale, consiglio nazionale della
pubblica istruzione, quest’ultimo ancora stentatamente in vita).
La scuola dell’autonomia, a fronte di accresciuti poteri e
responsabilità, non ha più alcuna voce in capitolo.
Da circa un ventennio si susseguono riforme, definite “epocali”
dal riformatore di turno, che poco o nulla hanno cambiato in ciò
che nella scuola veramente conta che è, in buona sintesi, la
qualità dei processi di insegnamento – apprendimento. Da questo
punto di vista la norma che maggiormente ha inciso, e non in
termini positivi, è una legge, la n. 133/08, di natura
eminentemente economico – finanziaria.
Non si tratta evidentemente di resuscitare organi che appartengono a
un mondo ormai trapassato; ma ascoltare la voce delle scuole
autonome, in modo serio e non burocratico, non potrà che far bene
alla scuola (da ScuolaOggi di Nicola Puttilli)
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