Il cardine del suo
pensiero è “meritocrazia”. Roger Abravanel spiega al sussidiario il suo
punto di vista sulla scuola italiana e sulla cura che ci vorrebbe per
risanarla. Il mondo è cambiato, e la scuola non può ignorarlo. I test
devono ora misurare il grado di competenze raggiunto dai nostri
studenti, e soprattutto i risultati devono essere pubblici. «La
trasparenza è la base per creare un circolo virtuoso di informazioni e
con esso introdurre un po’ di competizione, elevando il livello». Le
scuole?«Cominciamo a controllare la loro performance attraverso un
meccanismo di ispettorato». I sindacati? «Lavorano contro l’interesse
delle famiglie».
Abravanel, qual è lo stato della scuola
italiana?
In estrema sintesi direi: pessimo, ma con lievi segnali di
miglioramento. Dico pessimo perché quasi l’80 per cento degli studenti
italiani sono “analfabeti”. Non mi fraintenda: analfabeti non nel senso
che non sanno leggere e scrivere, ma che non capiscono quello che
leggono, come mostrano bene le indagini Ocse Pisa che misurano le
competenze. Non parliamo dell’ultimo rapporto Invalsi-Crusca del luglio
2010.
Partiamo dunque dall’indispensabile valutazione. Cosa pensa del nuovo
sistema disegnato dal milleproroghe?
Le scuole devono essere rese responsabili e la qualità del loro
insegnamento deve essere resa trasparente al pubblico. Io ho proposto
che i test che si cominciano faticosamente ad avviare vengano resi
trasparenti in modo che gli insegnanti e soprattutto le famiglie
possano capire con chiarezza la qualità della suola frequentata dai
figli. La trasparenza è la base per creare un circolo virtuoso di
informazioni e con esso introdurre un po’ di competizione, elevando il
livello. Per quanto riguarda le scuole, occorre cominciare a
controllare la loro performance attraverso un meccanismo di
ispettorato, che da noi ancora non esiste. Nella situazione in cui ci
troviamo i suoi costi sarebbero più che ripagati dalla qualità
dell’investimento.
Il suo modello ideale di valutazione va verso una classifica tra
scuole?
Non è tanto un problema di classifica, quanto di poter riconoscere la
qualità delle scuole. Devono conoscerla i genitori; deve conoscerla il
ministero, perché deve poter intervenire per migliorare le scuole che
sono meno buone; devono conoscerla le scuole stesse, perché solo così
possono elaborare programmi di auto-miglioramento rafforzando le aree
che risultano più deboli. E la dobbiamo conoscere noi contribuenti,
perché mettiamo nella scuola una quantità enorme di soldi e abbiamo il
diritto di conoscerne il ritorno.
Lei cosa propone?
Uno dei miei suggerimenti al ministro è stato quello di ridefinire la
missione dell’Invalsi. La Gelmini ha compreso l’importanza di un uso
sistematico dei test, e gran parte dei miglioramenti avuti di recente
nei dati Ocse-Pisa sono dovuti alla sensibilizzazione e alla formazione
all’utilizzo di questi test. La mia opinione è che l’Invalsi debba fare
solo test, non essere un istituto accademico che fa degli studi di
massima sulla qualità del sistema scolastico. Dovrebbe ispirarsi
all’Ets americano, l’istituto creato nel 1933 con questo scopo e che
oggi ha duemila persone esperte di test e di indagini.
L’uso massiccio di test non espone la didattica al rischio di essere
orientata alla misurazione, portando ad un impoverimento delle
discipline e dei curricula degli studenti?
No, il problema è diverso e più profondo. Qual è oggi l’obiettivo della
didattica? Si pensa ancora che esso consista nell’insegnamento statico
e ripetuto di una cultura immobile e più o meno definita, situata
concettualmente agli antipodi della misurazione. Ma il vero problema
con il quale oggi tutto il mondo si sta confrontando è che i
cambiamenti intervenuti a livello globale richiedono un sistema
educativo d’istruzione che indipendentemente dalle conoscenze e dalle
discipline che vengono insegnate, sviluppi negli studenti quelle che
vengono chiamate le competenze della vita. Esse sono precisamente
quelle misurate dai test: la capacità di ragionare con la propria
testa, di risolvere problemi, di lavorare in gruppo, di ascoltare.
Molti ancora non accettano l'idea della misurazione, perché pensano che
fare test voglia dire affrontare un quiz su quanti gol ha fatto Totti
in campionato.
Insomma, secondo lei sono i cambiamenti macro che impongono un cambio
di rotta.
Sì. Come mai questi test dimostrano un percentuale così elevata di
quell’“analfabetismo” di cui le dicevo? La gente non ha capito che il
mondo è cambiato, che siamo passati ad un’economia post industriale
basata sui servizi, in cui conta non tanto imparare a memoria le idee
di un altro, ma esser capaci di avere proprie idee.
Un punto chiave è quello dei docenti. Da chi li facciamo valutare? Da
un corpo di ispettori - che ad oggi la riforma del milleproroghe
prevede solamente per presidi e scuole - oppure dai colleghi, come
vuole il progetto sperimentale, che però sta arrancando?
Li facciamo valutare dai presidi. Il sistema di valutazione può
valutare solo le scuole, non i singoli docenti. Gli ispettori, il
ministero, i genitori devono poter valutare una scuola nel suo
complesso, al massimo possono farsi un’opinione di un singolo
insegnante, che però dev’essere valutato dal preside. Il dirigente
scolastico dev'essere anche un manager.
Un manager, dice?
So che la parola non piace a molti dei nostri insegnanti e
sindacalisti, che lanciano l’allarme contro la svalutazione
“industriale” della scuola, ma il preside nei fatti anche un gestore di
risorse umane: è lui che conosce meglio di chiunque altro i suoi
insegnanti, ed è lui a doverli formare, motivare, sostituire quando non
vanno bene. Egli deve quindi essere un ottimo insegnante, ma anche un
buon manager.
Ha citato i sindacati. Non c’è il rischio che anche il preside subisca
l’influenza di quella cultura livellatrice, di ascendenza statalistica
e sindacale, che è uno dei mali peggiori della scuola italiana?
Assolutamente sì, ed è un motivo in più per cambiare il sistema.
Occorre che un valutatore esterno vada dal preside e dica: Questa è la
fotografia della tua scuola: i test peggiorano - badi bene: non basta
dire semplicemente che sono pessimi, perché può esserci una scuola
disagiata e questo dev’essere tenuto in conto -, oppure: La tua scuola
andava molto male, ora sta migliorando. La tua, invece, è andata molto
peggio in matematica rispetto all’italiano, allora forse devi
rafforzarla in questa disciplina: facciamo insieme un piano di tre
anni, se fra tre anni siamo allo stesso punto, sappi che ti sostituiamo
oppure riduciamo i finanziamenti. E comunque in questo processo i
risultati sono resi trasparenti ai genitori, che vedendo come stanno le
cose possono decidere di mandare i figli in un’altra scuola.
Dall’Austria è venuta la proposta di abolire la bocciatura. Lei che ne
pensa?
Mi sembra un tema lontano dai nostri problemi attuali. La nostra
preoccupazione dev’essere quella di impegnarci nel migliorare la
qualità. Non è un compito facile, perché abbiamo perso la misura
dell’eccellenza.
Che cosa intende?
Se lei guarda i dati internazionali si accorge che il problema non è
soltanto il livello deludente della media italiana, ma che la
percentuale dell’eccellenza da noi è bassissima, molto più bassa della
Francia o della Finlandia. Il che vuol dire che la nostra scuola non
premia l’eccellenza, perché è tarata sul più debole. Questo è un tema
che andrebbe messo subito al centro del dibattito.
Lei auspica un sistema che lascia indietro i più svantaggiati,
perdendoli per sempre.
No, perché l’obiettivo non è la chiusura delle scuole che hanno cattivi
risultati, ma il loro miglioramento. Quello che conta non è il
risultato puntuale dei test di misurazione, ma la dinamica: una
conduzione scolastica che migliora nettamente un risultato pessimo è
migliore di quella che difende nel tempo lo stesso valore superiore in
termini assoluti. Più trasparenza farebbe aumentare la domanda di
qualità e con essa la pressione sul sistema.
Cos’è il “quasi libero mercato” di cui lei ha parlato a conclusione del
suo ultimo articolo sul Corriere?
Molto semplicemente, il fatto che un minimo di concorrenza tra le
scuole può far solo bene. Le scuole della Lombardia che hanno
pubblicato i risultati in maniera autonoma e spontanea, lo hanno fatto
per dire: Venite da noi che abbiamo scuole migliori. È positivo che
alcune scuole lo abbiano fatto, ma ora occorre che lo facciano tutti e
quindi il mio appello al ministro è stato di trovare un modo - un
decreto, una regolamentazione... - perché tutte le scuole pubblichino
questi risultati.
Quanto contano ancora i sindacati nella scuola italiana?
Moltissimo. I sindacati fanno gli interessi dei propri iscritti ed è
normale. Dispiace che siano proprio gli insegnanti a soffrire di questa
situazione, perché in Italia c’è qualche centinaio di migliaia di
bravissimi docenti che in un sistema poco responsabilizzato vengono
penalizzati. Ma più ancora quel che trovo terribile è che l'interesse
dei sindacati non tocchi minimamente quello dei genitori, e soprattutto
che i genitori non lo capiscano; e che si crei un’alleanza insensata
tra sindacati, insegnanti e genitori, dove questi ultimi sono quelli
che hanno più da perdere.
Chi può rompere quest’alleanza al ribasso?
La meritocrazia. E un paziente e saggio lavoro di buona informazione.
(diRoger Abravanel da www.ilsussidiario.net )
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