Ricordo uno dei miei
primi Collegi Docenti a Militello, proprio agli inizi della mia
carriera scolastica.
Prende la parola per relazionare l’attività svolta da “funzione
obiettivo” un collega di lettere, un tipo smilzo, barbuto e serio: “La professione
docente è un mestiere di solitudine, si lavora da soli dal suono della
campanella d’ingresso sino all’uscita vociante dei ragazzi dalla
scuola, e anche dopo, con i colleghi, con i dirigenti, con i
collaboratori, con i registri, con le carte da consegnare a fine anno.
Siamo e restiamo profondamente soli”.
Adesso dopo parecchi anni di lavoro precario, devo riconoscere che quel
collega, di cui ormai non ricordo più il nome, aveva perfettamente
ragione.
La professione docente è un lavoro di solitudine.
Ma come, mi si potrebbe obiettare, si lavora in un contesto vivo, pieno
di vita, di giovani, di colleghi?
Come si fa a rimanere soli in un simile ambiente!?
Provate a vivere dentro una scuola e capirete anche voi!
Siamo soli in cattedra, dentro l’aula scolastica con i ragazzi che ti
vedono dall’altra parte della barricata;
siamo soli in sala docenti con i colleghi che ti nascondono il loro
lavoro e custodiscono in gran segreto registri personali e libri di
testo;
siamo soli nei lunghi e luminosi corridoi con i bidelli che ti guardano
con aria di sufficienza e di sospetto, pronti a negarti fotocopie e
carta igienica;
siamo soli in vicepresidenza spiati da un enorme orologio a pendolo
“stile impero”;
siamo soli nei consigli e negli scrutini, attenti a controllare il rigo
con la giusta casella e la percentuale millimetrica dei voti;
siamo soli con le famiglie dei ragazzi che agli incontri vengono sempre
con una buona dose di premura e di pregiudizi, avuta in dote dai figli;
siamo soli con il dirigente scolastico, interessato oramai al bilancio
economico ed al parere dei Revisori dei conti; siamo soli nel leggere
le circolari ministeriali e nel rincorrere il ginepraio di ricorsi e di
sentenze senza fine.
Per non parlare degli insegnanti di sostegno: solitudine elevata al
cubo! Soli con il ragazzo che seguiamo, con la classe e con i colleghi
curriculari. E soli, sospettosi e diffidenti persino con gli stessi
colleghi di sostegno.
E se poi tutto questo oceano di solitudine lo condiamo con la vita del
precario quarantenne costretto ad accettare l’incarico annuale ad oltre
1350 chilometri lontano da casa, sradicato dai propri affetti, dalle
abitudini, dalla propria vita…Che esistenza ne viene fuori?
E quando si torna per le vacanze di Natale e di Pasqua, quando si tenta
di voler ritornare nella propria normalità, nella vita di sempre, fare
una passeggiata in piazza, andare al cinema, ascoltare un comizio, e si
viene salutati dai vecchi amici e conoscenti come un parente lontano,
come lo zio d’America, come uno straniero…nella propria terra.
E si ha, quindi, l’amara sorpresa di
vivere “per due volte” la solitudine, nel luogo dove lavori, perché
emigrante, e nella città d’origine, perché perdi la quotidianità, il
contatto giorno dopo giorno, la normalità del vivere comune, il
respirare la stessa aria, anche se impregnata di discarica, il sentire
gli stessi problemi, le comuni preoccupazioni, gli avvenimenti, le feste.
Straniero a casa propria!
Che amaro destino il nostro.
Ma forse è tutta qui la nostra forza. La cattedra è la nostra trincea,
la nostra barricata da cui tentare l’assalto finale per “cambiare il
mondo”; l’insegnamento come dimensione privilegiata della nostra
esistenza in grado di dare un senso anche al vuoto di solitudine che ci
circonda, di dare un significato importante alla nostra vita.
Dare una risposta felice e convincente con il nostro lavoro, giorno
dopo giorno, alle derive del mondo.
Questa è la nostra mission. “Ti facisti pissuasu?”
Esclamerebbe ancora la mia cara e simpatica collega siciliana che ama
tanto il dialetto!
Ma a me, quest’anno, è piaciuto combattere la solitudine anche con gli
occhi neri di Sharon; anche lei, che proviene da un altro mondo e che
porta nel cuore i profumi e i silenzi della sua Africa, combatte, come
noi, ogni giorno, le ingiustizie storiche del mondo con un sorriso
giovane dentro un mestiere che non possiamo dire.
Ed ha la forza
di dire ad ogni domanda: “Va bene!”.
Angelo Battiato (inviato speciale a
Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it