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Voce alla Scuola: Babbo Natale falso ottimista

Opinioni

in "Corriere della Sera" del 24 dicembre 2007

Trasformare il mistero dell'incarnazione — l'eterno che si fa storia, tempo fugace,

carne fragile e peritura — o anche solo l'infantile poesia di Gesù Bambino o dell'angelo che porta i

doni nella figura di un vecchio panciuto e svampito, dal viso rubizzo e giulivamente ebete, è un po'

troppo.

Se proprio ci si vuole sbarazzare del Cristianesimo — del linguaggio e delle figure che esso ha dato

per secoli alla rappresentazione della vita — meglio tornare allo Yule, alla nordica festa pagana del

solstizio d'inverno col suo culto delle demoniche forze elementari, che Lovecraft, nei suoi racconti

dell'orrore assai poco natalizi, sentiva ancor vive e minacciosamente in agguato sotto la crosta della

civiltà. Non a caso, al tempo della mia infanzia, catechisti e sacerdoti della parrocchia

scoraggiavano e deprecavano, sia pur blandamente, l'albero di Natale, l'abete di remota ascendenza

boreale e pagana, contrapponendogli il cristiano, cattolico e italico Presepe; palme e cammelli

d'Oriente e dolce terra umbro-francescana contro la neve del Settentrione.

Mi sarei dunque atteso una più energica riprovazione ecclesiastica — almeno pari a quella delle

zucche di Halloween — del paonazzo fantoccio da supermarket, con le sue renne fatte per tirare la

slitta a Cortina e non in Lapponia. Se Babbo Natale, con rispetto parlando, deriva da Santa Claus

ovvero San Nicolò, come triestino mi sento corresponsabile del suo trionfo, visto che a Trieste San

Nicolò, col suo manto rosso, porta i doni nella notte tra il 5 e il 6 dicembre, ma quel rosso del santo

di Bari ha almeno una sua regalità, da re pastore e non da insegna luminosa di supermarket.

Quest'ultimo, ovviamente, può essere altrettanto sacro, con buona pace dei fustigatori del

consumismo nostalgici della miseria dei tempi andati. Nessun oggetto, nessuna istituzione, nessun

rito sono di per sé sacri; sacro è solo il senso di amore e soprattutto di rispetto per gli uomini.

Comperare un panettone a un supermarket, pensando alla tavolata con persone amate, non è meno

poetico che preparare un pasto in una capanna di pastori o in una casa contadina. Sono i simboli

della vita a dire il significato che le attribuiamo.

Sotto questo profilo, il ridanciano e scampanellante Babbo Natale è un segno della crescente

scristianizzazione; della perdita della memoria, del linguaggio, del senso che il Cristianesimo dà al

mondo. Non è solo il vituperato consumismo, simboleggiato da Babbo Natale, che disturba. Pure in

passato il pranzo e i regali natalizi obbedivano alla logica del consumo, di per sé nient'affatto

disdicevole, e non è un merito se la penuria, subìta e non certo scelta, costringeva a consumi più

modesti. E' quel sorriso giocondo e soddisfatto nel roseo faccione che nega il Natale. Le feste di un

tempo univano il piacere — per un bambino, anche l'incanto misterioso dei doni sotto l'albero o

davanti al Presepe — e la malinconia della ripetizione, che scandisce il fluire e lo svanire del tempo

quanto più cerca di catturarlo e fermarlo nel rito sempre uguale.

La festa — e il Natale è quella più grande — fa (soprattutto faceva) sentire che la festa della vita

finisce, che l'esistenza è il precipitare della gioia e degli affetti nel buio del tempo e del nulla, così

come nel grande abete, che un magico zio travestito da angelo mi allestiva nella mia infanzia, una

cascata di caramelle bianche come la neve cadeva e spariva nella folta ombra dei rami e le gocce di

cera delle candele accese cadevano una sull'altra e si consumavano. Ogni anno tante gocce d'oblio,

mentre la tavolata famigliare si arricchiva di nuovi venuti e ancor più si spopolava di altri che se ne

andavano lasciando seggiole vuote.

La festa diceva la tenerezza e anche gli acri, amari malintesi della vita di famiglia; era occasione in

cui emergevano e poi si sopivano rancori antichi, acerbamente conviventi con gli affetti, che il

bambino captava sgomento e poi rasserenato, imparando a capire il nesso inestricabile di amore e

avversione che lega gli uomini. Protagonista e vezzeggiata, l'infanzia era anche vagamente oppressa

da quella ripetizione e da quella mistura di gioia e malinconia, immortalata in tragiche e debolmente

sorridenti foto di famiglia.

Anche in quei Natali tradizionali si violava e negava, senza saperlo, il significato del Natale, che è

preludio di Buona Novella e di liberazione e non malinconia; tempo annunciato e vissuto come

pienezza, come compimento di attese e valori, e non quale stillicidio di minuti e di anni nel nulla.

Ma tutto ciò era almeno riscattato dalla malinconia; l'angelo — anche quello che porta i regali — è

sempre malinconico, figura del mondo caduto e imperfetto.

Babbo Natale invece è sinistramente allegro; è persuaso e vuole persuadere gli altri che tutto va

bene e andrà sempre meglio; che il nostro mondo, la nostra società, il nostro benessere, il nostro

denaro, la nostra democrazia, il nostro teatro quotidiano siano i migliori e gli unici possibili, una

crescita destinata ad accrescersi trionfalmente sempre più, una scorpacciata senza limiti garantita da

pillole digestive sempre più efficaci, un progresso inarrestabile, uno stadio definitivo e un ordine

immutabile, un oggi scambiato per l'eterno. Incubi di pranzi in cui l'obbligato ingozzarsi insinua

nell'animo una pesantezza di morte, quintali di biglietti augurali e cassette di vini e di dolciumi che

ingombrano la casa dei fortunati destinatari di omaggi con la violenza dell'invasione.

Il Natale è la nascita di un bambino, di un salvatore che sarà crocifisso e conoscerà l'estremo

abbattimento del Getsemani; la gioia che esso annuncia non è una truffa, perché non nasconde il

dolore, il crollo del mondo. Uno dei più grandi racconti di Natale di ogni letteratura, «Cristallo di

rocca» di Stifter, dice — come ha scritto Maria Fancelli in un memorabile saggio — «che

l'attraversamento del nulla è necessario ». Babbo Natale vuole invece farci dimenticare che siamo

sull'orlo di un vulcano, il quale potrebbe eruttare fuoco distruttore da un momento all'altro; che le

tensioni del mondo si vanno facendo insopportabili e incontrollabili; che davanti al Presepe

premono, per entrare in quella capanna che è il cuore del mondo, più persone di quante essa possa

accogliere. Babbo Erode non si turba per le stragi di innocenti. Il fasullo scampanellìo della sua

slitta cerca di sopraffare il coro degli angeli che annunciano gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in

terra agli uomini di buona volontà.

Cerca di coprirlo perché, se lo si sente, si rimane sbigottiti dalla smentita che quell'annuncio riceve

sulla Terra, dove la pace è quasi sempre negata agli uomini di buona volontà e semmai concessa ai

farabutti. Quel canto da sempre smentito va invece sempre ascoltato e seguito, per continuare a

credervi contro ogni evidenza, a sperare contro ogni vittoriosa negazione, con quell'autentica

speranza che passa sotto le forche caudine della disperazione e rifiuta le stampelle del tronfio e

menzognero ottimismo.

 

 









Postato il Mercoledì, 26 dicembre 2007 ore 13:48:12 CET di Filippo Laganà
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