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Umanistiche: POPPER E LA CRITICA DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA

Rassegna stampa
IL SENSO DELLA STORIA

Popper e la critica alla filosofia della storia
Roberto Porciello*

 

Non c’è da stupirsi che gran parte della critica di Popper alla filosofia della storia di Hegel e di Marx si sviluppi sul terreno più congeniale a un epistemologo. Egli accusa infatti questi pensatori di essere caduti, nell’elaborare le loro concezioni della società e della storia, in una serie di errori metodologici, al cui complesso dà il nome di 'storicismo'.

Gli errori metodologici in Hegel e Marx
Tra questi errori, due sono i più importanti: 'essenzialismo' e 'profetismo'.
 Il primo consiste nella pretesa, ereditata dal pensiero platonico e aristotelico, che possibilità e compito della scienza in generale sia quello di determinare la 'intima natura' o 'essenza' delle cose e che, pertanto, la possibilità e il compito specifico della scienza della società sia quello di determinare l’essenza della società stessa. È questa pretesa che porta Hegel a concepire lo Stato come incarnazione dello Spirito del mondo e a intendere la storia come sviluppo dialettico dello Spirito; ed è la stessa pretesa a indurre Marx a individuare l’essenza della società nella sua struttura economica e a interpretare la storia come evoluzione dialettica dei rapporti tra classi sociali intese essenzialmente come forze economiche (cfr. Miseria dello storicismo, trad. it. a cura di C. Montaleone, Milano, 1975, pp. 37-43 e La società aperta e i suoi nemici, trad. it. a cura di R. Pavetto e D. Antiseri, Roma, 1973-74, vol. I, p. 56 e vol. II, pp. 141-142).
Popper fa osservare che simili concezioni affondano le loro radici in una visione olistica della realtà, secondo la quale l’intero è ontologicamente precedente alle parti che lo compongono e sarebbe perciò impossibile comprendere adeguatamente il rapporto tra le parti senza prima comprendere l’intero come tale. Ma a tale visione egli ribatte con il nominalismo tipico della più classica tradizione empirista, secondo il quale i termini che designano collettività di individui, come 'società', 'stato' o 'classe sociale', non stanno affatto a indicare singoli enti di cui sia possibile definire un’essenza. Essi non sono altro che nomi convenzionalmente usati per indicare l’insieme complesso costituito dagli individui che compongono tali collettività e dai rapporti che tra essi si instaurano; alla prospettiva olistico-essenzialistica viene contrapposta quella di un 'individualismo metodologico', secondo il quale conoscere la società non potrebbe significare altro che prendere in esame quel complesso insieme di rapporti che si instaurano tra gli individui che la compongono, al fine di individuare eventuali regolarità nel loro concatenarsi.

Il determinismo marxista
 Quanto al 'profetismo', che caratterizza in particolare la filosofia della storia di Marx e dei suoi seguaci, esso nasce dalla convinzione, a sua volta fondata su una visione rigidamente deterministica del mondo, che possibilità e compito della scienza in generale sia quello di prevedere, grazie alla conoscenza delle leggi della natura, gli eventi fisici che accadranno nel futuro. Esso viene perciò a configurarsi come pretesa che la possibilità e il compito specifico della scienza della società sia quello di prevedere, grazie alla conoscenza delle leggi dell’evoluzione storica, il destino della società stessa. Di conseguenza, Marx identifica nella lotta di classe la legge inesorabile della storia e crede di poter prevedere scientificamente l’imminente collasso della società capitalistica, la rivoluzione del proletariato e la nascita della società senza classi.
 A questo proposito, Popper osserva come Marx attribuisca erroneamente il valore di 'leggi' a quelle che altro non sono se non 'tendenze' storiche, favorite dal persistere di determinate condizioni sociali che potrebbero imprevedibilmente mutare, determinando, nel futuro, repentini cambiamenti di tendenza. Su tale fraintendimento si basa l’illusione marxiana che un approccio scientifico allo studio della società lo possa mettere in grado di esprimere previsioni 'incondizionate'. In realtà ogni autentica previsione scientifica non può che avere un carattere 'condizionale', in quanto il verificarsi dell’evento previsto dipende sempre dal persistere di determinate condizioni iniziali, mentre una previsione incondizionata ha tutto il sapore di una profezia e sfugge totalmente alla portata del metodo scientifico.

 Storicismo e totalitarismo
In Popper, tuttavia, la critica metodologica alla filosofia della storia di Hegel e di Marx non è fine a se stessa. Fin dall’inizio della più importante opera da lui dedicata a questi argomenti (La società aperta e i suoi nemici) risulta chiaro, da un lato, che egli crede di poter identificare in queste filosofie la matrice culturale di certi esiti totalitari della storia del Novecento e, dall’altro lato, che il suo scopo fondamentale è quello di offrire supporto teorico a un giudizio di condanna nei confronti del totalitarismo. "Questo libro - scrive infatti Popper - intende contribuire alla nostra comprensione del totalitarismo e dell’importanza di una lotta perenne contro di esso".
 L’errore in cui più facilmente potrà incorrere lo studente alle prese col pensiero popperiano sarà dunque quello di ritenere che la condanna del totalitarismo possa discendere direttamente dalla critica metodologica dello storicismo. In questo caso ci troveremmo di fronte, come d’altro canto è stato esplicitamente preteso, alla vera e propria 'fondazione epistemologica' di una scelta politica. In realtà, il legame tra la critica dello storicismo e la condanna del totalitarismo appare molto meno lineare di quanto in un primo momento si potrebbe pensare.
 Il primo nodo problematico riguarda il rapporto tra la filosofia della storia di Hegel e di Marx e i programmi politici totalitari. Il fatto che Hegel e Marx elaborino le loro concezioni storico-sociali con un metodo non scientifico non può evidentemente dimostrare alcunché. Qui il Viennese introduce pertanto un’ulteriore notazione critica che sposta improvvisamente il discorso dal piano metodologico a quello etico. Egli fa notare come entrambi questi filosofi tendano a identificare, non tenendo conto della lezione di Hume, la dimensione dell’'essere' con quella del 'dover essere', l’ambito dei 'fatti' con quello dei 'valori' e delle scelte etico-politiche. Per Hegel tutto ciò che accade nella storia, oltre a non poter non accadere, è anche giusto che accada e, per Marx, la scelta rivoluzionaria si presenta come la decisione di aderire a ciò che è destinato ad accadere. Per questo aspetto, la loro posizione teorica è riconducibile, secondo Popper, a quella del 'monismo ingenuo', cioè all’ingenua identificazione tra le leggi di natura e le leggi normative che regolano la convivenza sociale.
 Tale identificazione non è solo una possibilità astratta, ma è tipica delle primitive 'società tribali', nelle quali, proprio perché le leggi normative sono considerate inviolabili e immodificabili come le leggi di natura, "la via giusta è sempre predeterminata […]. Essa è determinata da tabù, da istituzioni tribali magiche che non possono mai diventare oggetto di considerazione critica" (La società aperta e i suoi nemici, vol. I, pp. 243-244). Riconducendo la posizione teorica di Hegel e di Marx a quella del 'monismo ingenuo', Popper ritiene pertanto di poter interpretare le loro valutazioni politiche come espressioni di un nascosto desiderio di tornare al tribalismo, e cioè a una forma di società chiusa, in un momento storico in cui si andava invece affermando un altro modello di società, quello della società aperta, a cui si ispirano le moderne liberal-democrazie occidentali, basato sul riconoscimento del carattere convenzionale delle norme della convivenza e, di conseguenza, della possibilità di modificarle mediante la critica razionale. Ecco attraverso quale contorto itinerario concettuale l’epistemologo viennese tenta di stabilire un nesso tra la filosofia della storia di Hegel e di Marx e i programmi politici totalitari. Nel totalitarismo, infatti, altro non vede che il tentativo di ricostruire, con metodi violenti, forme di società tribale, che prevedono la totale sottomissione dell’individuo all’ordine costituito e pretendono di poter risolvere una volta per sempre i problemi della convivenza umana.

 La difesa della società aperta
L’altro grande nodo problematico è rappresentato dal fondamento del giudizio di valore negativo nei confronti del totalitarismo. Quand’anche il progetto totalitario fosse effettivamente interpretabile come tentativo di tornare al tribalismo e quand’anche nel pensiero di Hegel e di Marx fosse effettivamente riconoscibile la matrice culturale di tale progetto, per quale ragione, al di là della nostra appartenenza di fatto all’attuale momento storico, dovremmo preferire la società aperta al modello di convivenza tribale e trattare Hegel e Marx come nemici? Per quale ragione, in altri termini, una società in cui le norme della convivenza sono considerate suscettibili di continua revisione critica dovrebbe essere giudicata migliore di una società che attribuisce alle norme esistenti un valore sacro?
 Anche a questo proposito, il fatto che Hegel e Marx elaborino le loro concezioni della società e della storia con un metodo non scientifico non fornisce a Popper utili argomenti. Qui, piuttosto, intervengono altre due tesi alquanto discutibili. Una è quella secondo cui sarebbe possibile affrontare il problema della scelta delle norme di comportamento con lo stesso metodo con cui si affronta il problema della conoscenza della natura. L’altra è quella secondo cui, nell’ambito della conoscenza della natura, l’applicazione del metodo scientifico, che procede per 'congetture e confutazioni', sarebbe in grado di garantire un progresso verso teorie sempre più vicine alla verità. Combinando queste due tesi, Popper conclude che solo una società aperta, consentendo la continua revisione critica delle norme della convivenza sociale, può garantire un progresso verso l’adozione di norme sempre più giuste.

L'ottimismo popperiano e la presunta ragionevolezza dell'Occidente
 Quel che è certo è che nell’ottimistica fiducia di Popper nelle capacità di progresso della civiltà della scienza e nel suo disprezzo per le società tribali si possono riconoscere gli stessi argomenti con i quali, ai nostri giorni, l’Occidente si compiace della propria differenza rispetto al resto del mondo, celebrando la propria ragionevolezza, democraticità e liberalità in contrapposizione al dogmatismo fanatico e autoritario di altre culture e di altre civiltà. E se è vero che tale circostanza, consentendo di collegare l’argomento 'Popper' a tematiche di attualità, può essere agevolmente utilizzata per stimolare negli studenti delle scuole superiori l’interesse per questo autore, è altrettanto vero che, qualora l’insegnante non sia in grado di fornire, insieme alla ricostruzione sintetica delle tesi popperiane, strumenti per una loro valutazione critica, la medesima circostanza può comportare il rischio di trasmettere l’idea, del tutto fuorviante e per molti aspetti pericolosa, che l’odierna pretesa di superiorità civile e culturale da parte del mondo occidentale riposi su solide fondamenta filosofiche.

 *Dottore di ricerca in Filosofia e scienze umane, è autore del volume Scienza e decisione. Saggio sul pensiero politico di Karl Popper (Milano, Franco Angeli, 1999); insegna storia e filosofia in un liceo di Perugia.

Pubblicato il 12/12/2006









Postato il Mercoledì, 20 dicembre 2006 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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