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Umanistiche: LA FILOSOFIA DELLA STORIA DEL NOVECENTO

Rassegna stampa
La filosofia della storia del Novecento
di Bruno Accarino*

 

La filosofia della storia del Ventesimo secolo ha interessi e orizzonti sensibilmente diversi da quelli della sua stagione classica. Essa si sente anzi impegnata a trarre un bilancio dei grandi contenitori concettuali che avevano dominato quella stagione: libertà, progresso, storia, educazione, civiltà. Il tratto più significativo della riflessione filosofica non è dato, ora, dalla razionalità immanente alla storia, per quanto dialettica possa essere l’interpretazione di questa immanenza, ma dai limiti della razionalità. Se si assume come prioritaria l’esigenza di un bilancio della passata elaborazione, sono da considerarsi testi fondamentali di filosofia della storia due opere apparse poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale: Escatologia occidentale di Jakob Taubes (1947, trad. it. Garzanti) e Significato e fine della storia di Karl Löwith (1949, trad. it. Comunità). In entrambi i casi viene ricostruito il passaggio dalla teologia della storia alla filosofia della storia: pur con rilevanti differenze, Taubes e Löwith pongono al centro dell’attenzione sia il patrimonio ebraico-cristiano delle origini che le sistemazioni dottrinarie intermedie (soprattutto Agostino). Quanto alla modernità, essi colgono negli autori classici a cavallo tra Settecento e Ottocento (da Herder a Kant, da Hegel a Marx) le tracce di un processo di secolarizzazione che, pur non identificandosi più con la dottrina cristiana della fine dei tempi, la trasfigura in una teoria laica del progresso e della rivoluzione. Contributi rilevanti sono da considerarsi, in questo ambito, anche La legittimità dell’età moderna di Hans Blumenberg e Futuro passato di Reinhart Koselleck (entrambi proposti in trad. it. da Marietti).

Crisi della concezione lineare del tempo
Incalcolabile, in generale, è l’influenza esercitata da Nietzsche (morto nel 1900), tanto per il versante genealogico della sua riflessione, quanto, soprattutto, per il rifiuto di una concezione lineare del tempo e per il recupero, nella dottrina dell’eterno ritorno, di un’immagine ciclica del tempo stesso. È tuttavia evidente che, al di là del debito contratto con Nietzsche, sono i grandi traumi del Ventesimo secolo a porre problemi inediti alla filosofia della storia. Non è quindi un caso che la famosa opera di Oswald Spengler Il tramonto dell’Occidente (trad. it. Longanesi) veda la luce alla fine della Prima guerra mondiale e che ruoti attorno alle figure della decadenza e del declino. L’opera di Spengler si concentra non sui trionfi ma sulla crisi dell’Occidente, al cui significato letterale (occaso = tramonto) allude sin dal titolo. Molto nota è la triade individuata nella morfologia spengleriana della storia universale: l’anima apollinea, l’anima magica, l’anima faustiana. Mentre l’anima magica viene da Spengler sostanzialmente identificata, pur nella varietà di esemplificazioni talvolta dispersive e poco plausibili, con il mondo arabo, la biforcazione dalle conseguenze di lungo periodo è quella tra l’apollineo e il faustiano: nel primo caso domina una simmetria della bellezza e dell’apparenza, oltre che una logica dello spazio vicino; nel secondo caso, che racchiude i tratti della civiltà occidentale in senso proprio, prevale una dinamica dello spazio illimitato.

Kultur e Zivilisation in Spengler
 La coppia opposizionale trainante è, in Spengler e in una diffusa letteratura che ebbe un impatto perfino popolare, quella che vede la Kultur contrapporsi alla Zivilisation: la prima è la somma dei valori e dell’identità spirituale, in particolare di un popolo, la seconda è indice solo del progresso materiale di avanzamento scientifico e di padroneggiamento tecnico del mondo. Il pensiero di Spengler è stato a lungo considerato un momento di incubazione del conservatorismo europeo, schieratosi a difesa della Kultur, o addirittura l’espressione di una linea reazionaria e irrazionalistica. Oggi esso viene però da più parti rivalutato: occorre ricordare, in particolare, che, nella scia di un notevole incremento degli studi orientalistici, Spengler è uno dei primi a render conto dello sviluppo e delle forme delle civiltà orientali. Non mancarono, comunque, estremizzazioni ideologiche, spesso di segno bellicistico, quando la Kultur fu fatta coincidere con lo spirito degli eroi e la Zivilisation con quello dei mercanti: da un lato si delineò l’interiorità tedesca, dall’altro l’utilitarismo britannico.

La posthistoire e la fine delle meta-narrazioni
I decenni che ci separano dalla Seconda guerra mondiale segnano un ritrarsi della filosofia della storia, la quale finisce anzi spesso sul banco degli imputati, perché sospettata di aver trionfalisticamente santificato la razionalità occidentale, poi tragicamente sfociata nella catastrofe europea. Il cammino inarrestabile della tecnica, con i suoi effetti di frammentazione sociale, di impoverimento della comunicazione e di condizionamento dell’agire politico, e il lungo periodo di pace successivo al 1945 annunciano l’avvento di un’epoca 'postmoderna' nella quale, come sostiene Jean-François Lyotard (La condizione postmoderna, trad. it. Feltrinelli, ed. originale 1979), non c’è più spazio per 'meta-narrazioni', cioè per grandi narrazioni che cerchino il senso complessivo e unitario dell’evoluzione storica: scompaiono "i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini" (Lyotard). In loro vece si affaccia una nebulosa di elementi privi di connessione interna e, soprattutto, di stabilità: ogni elemento vive al crocevia di molti altri ed è sempre revocabile. Parallelamente, sempre più diffusa è l’immagine della cosiddetta posthistoire, una condizione di stagnazione nella quale nulla di nuovo è destinato ad accadere e tutto è condannato alla ripetizione del sempre uguale. Non sorprende che, a cavallo tra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo, una certa risonanza abbia avuto il discorso sulla 'fine della storia' (Francis Fukuyama, autore di un libro dal titolo omonimo apparso nel 1992), che pure poteva vantare nobili ascendenze in Alexandre Kojève e in altri autori.

La sfida filosofica della globalizzazione
 Ad accentuare il disagio è il processo di globalizzazione, che sembra portare a definitiva realizzazione l’annunciata crisi di una causalità storica riconoscibile e moltiplicare gli effetti della contingenza, sconvolgendo lo spazio e il tempo con un processo di de-territorializzazione e di accelerazione. Tuttavia la sfida filosofica della globalizzazione può essere raccolta: è quanto propone Peter Sloterdijk (Il mondo dentro il capitale, trad. it. Meltemi, e L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, trad. it. Carocci), che si avvale anche di strumenti specificamente antropologici per delineare un plurisecolare processo di domesticazione, attraverso il quale l’uomo riesce a controbilanciare la sua costitutiva estraneità al mondo. Secondo Sloterdijk, andiamo verso una 'seconda ecumene', cioè verso un'immagine della terra 'abitabile' che riduce a provincia tanto il mondo greco quanto quello cristiano e non riconosce più un centro e una periferia. In questa luce possono essere reinterpretate anche vicende che, come le scoperte di nuovi continenti, sembravano, nella prospettiva dell’epoca post-colombiana, prive di segreti: la globalizzazione perde così i contorni di un processo recente per assumere quelli del destino dell’Occidente.

 *Insegna Filosofia della storia presso l’Università di Firenze. Tra i suoi scritti ricordiamo: Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg (Milano, Mimesis, 2002), Le frontiere del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità moderna (Milano, Mimesis, 2005); ha curato l'edizione italianadi Helmuth Plessner, Potere e natura umana (Roma, manifestolibri, 2006).

Pubblicato il 12/12/2006
 








Postato il Giovedì, 14 dicembre 2006 ore 00:05:00 CET di Silvana La Porta
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