Coltivata in quasi
tutto il bacino del Mediterraneo fin dall’età del bronzo, la fava è
stata per millenni architrave dell’alimentazione di molti popoli.
Eppure in Egitto, dove attualmente se ne produce più d’ogni altra parte
del mondo e se ne consuma persino a prima colazione (come ci ricordano
i romanzi di Nagib Mahfùz), la fava non si inserì subito nel panorama
produttivo agricolo: «Nel loro paese
- si legge nel secondo libro delle Storie di Erotodo - gli Egiziani non
seminano assolutamente fave; se crescono, crude non ne mangiano, né se
ne nutrono dopo averle cotte: i sacerdoti non ne sopportano neppure la
vista, ritenendo che si tratti di un legume impuro».
Lo stupore del padre della storia non poteva però spingersi più oltre
di tanto. Vero era che nel suo paese e nella stessa Magna Grecia, fave
se ne coltivavano tante, ma era notorio che i sacerdoti di Giove non
potevano cibarsene e si astenevano persino dal guardarle. Attento
com’era, Erotodo non poteva oltre tutto ignorare le analoghe
proibizioni dei vecchi riti orfici e le note fobie di Pitagora che,
inseguito dai nemici, non aveva esitato a lasciarsi catturare piuttosto
che attraversare un campo di fave.
Di fave lesse in Grecia si facevano grosse scorpacciate nel mese di
antesterione (febbraio), in omaggio a Bacco e Mercurio per le anime dei
defunti. Le stesse usanze si riscontrano nelle antiche celebrazioni
mortuarie romane. Per non parlare dei frati del monastero di Cluny che,
costretti a mangiare una razione di fave al giorno, venivano
autorizzati dal priore ad ingoiarne il doppio in occasione della
commemorazione dei defunti, «perché potessero sostenersi meglio durante
la lunga veglia funebre». Riti del genere sopravvivono fino ai nostri
giorni: pietanze a base di fave se ne consumano ancora molte il 2
novembre in Italia, al sud come al centro e al nord. Dove non compaiono
direttamente, le fave onorano la tradizione sotto forma di pesci o
dolci, in modo non necessariamente mascherato, a giudicare dagli
artistici baccelli di marzapane che la mattina del 2 novembre, festa
dei morti, i bimbi di Sicilia rinvengono tra i doni depositati
nottetempo nel "cannistru" dai parenti passati a miglior vita. La fava
dunque come tramite tra i morti e i vivi. Ne sapeva qualcosa un
vecchietto del mio paese che, non potendosi permettere altrimenti il
lusso di mangiare carne, teneva in tasca una fava larga legata alla
punta di un laccio e, quando vedeva qualche gallina razzolare in un
letamaio, gliela gettava in pasto (al riparo di occhi indiscreti) con
la speranza che abboccasse come un pesce all’amo ...
Né può essere motivo di meraviglia il fatto che si chiama fava, in
talune regioni d’Italia, l’organo di cui più si vanta l’umano maschio.
Fava portentosa, a sentire certi toscanacci, fava acquietaprurito, fava
consolavedove, fava per ogni gusto, da salotto e da sagrestia, come
quella immortalata dal pennello di un ignoto imbrattamuri di Arezzo:
«Dio ci guardi dai fulmini e dai tuoni e dalla fava di don Calone!».
Simbolo fallico sin troppo scoperto, la fava è quindi sinonimo della
vita che, rinnovandosi, continua. Altro che simbolo di morte, come ci
vorrebbero far credere certi studiosi che si aggrappano persino alle
macchioline scure del candido fiore della fava con l’illusione di
fargli reggere il peso delle loro folli elucubrazioni!
I contadini poveri di Sicilia hanno, al contrario, sempre considerato
la fava un provvidenziale dono divino, una sorta di manna caduta dal
Cielo, atta ad assicurare la sopravvivenza della specie umana persino
in condizioni disperate. «Si sa, per tradizione, – scriveva nel 1898 il
Cav. Uff. Salvatore Butera – che nel 1803 [anno di grande carestia] non
pochi contadini di Vicari nell’epoca della seminagione delle fave,
tenevano queste in un bagno d’acqua fresca per poco tempo, perché si
rammollissero, indi le tagliavano a metta e così la parte superiore
nella quale restava l’embrione la seminavano, l’altra metta la
mangiavano per disfamarsi». Per farla breve, neppure a Baucina (ridente
paesino del Palermitano) può trovare mai credito la teoria che
considera la fava simbolo di morte, con buona pace di Pitré che
pubblicò questa curiosa credenza tutta baucinese: «Mettendo una fava
entro un teschio e poi seminandola, le fave seminate produrranno fave
molto cucivuli».
Ora, senza voler mettere minimamente in discussione la veridicità di
quanto ha scritto lo studioso palermitano, non può esserci ombra di
dubbio che i contadini di Baucina ricorressero al macabro rito solo in
casi estremi, e sempre animati dalla speranza di produrre fave di
facile cottura, adatte a preparare il maccu, erede diretto della "puls
fabata", nota poltiglia di fave che i Romani offrivano in sacrificio a
Giunone. Macco, impareggiabile capolavoro di cucina povera, vanto delle
massaie rurali di tutta l’Italia! Però, onestamente, è in Sicilia che
la sostanziosa pietanza raggiunge una qualità d’eccellenza, capace di
suscitare rare suggestioni gustative, ma anche visive e olfattive.
Comunque preparato, con fave secche o verdi, con cotenne di maiale o
assieme ad altri legumi (come nella migliore tradizione delle tavolate
di san Giuseppe), il maccu siciliano è spesso insaporito dal
finocchietto riccio, di montagna, come… la pasta con le sarde, stavo
per dire. Ma perché importunare una squisitezza culinaria d’origine
urbana avendo a portata di mano tanti piatti campagnoli col
finocchietto che non temono il confronto con Sua Maestà, la pasta con
le sarde? Penso alla frittedda di favette verdi, ai taglierini di casa
con le fave che i devoti della Madonna del Furi la Domenica in Albis
fino a pochi decenni addietro cucinavano nei campi attorno al
santuario, in quel di Cinisi. Penso anche alla pasta con faviani e
ricotta del Ragusano, alle fave pizzicate, e persino a quelle a
cunigghiu del Palermitano, quando sono cucinate come Dio comanda: col
finocchietto riccio, di montagna.
Che arma potente, però, la fava! Non si possono contare i servizi da
essa resi ai siciliani.
Se, subito dopo l’unità d’Italia, i contadini di Sicilia osservati da
Franchetti e Sonnino erano meno denutriti di quelli padani, e per di
più nemmeno sfiorati dalla pellagra, qualche piccolo merito l’avrà pure
avuto l’umile pianticella coltivata dai favalori. «La fava – scriveva
nel 1902 il geografo Paolo Revelli – colla sua notevole quantità di
materie azotate, costituisce non solo la base principale
dell’alimentazione del contadino modicano, ma quasi generalmente la
sola alimentazione». Ma solo di quello modicano? In tutta la Sicilia
fino ai primi anni sessanta, della fava (come del porco) non si
sprecava nulla: con i germogli più teneri si rimediava una squisita
insalata e, all’occorrenza, una minestra verde; e, in periodi di fame
nera, si cucinava finanche la lupa, noto parassita della fava che i
botanici chiamano Orobanche major. Gli stessi steli secchi, almeno
dalle mie parti, erano fonte di riscaldamento domestico, alimento per
forni, focolari e luminarie, combustibile industriale, se industrie si
potevano chiamare le carcare, quelle rudimentali fornaci per la
preparazione del gesso e della calce viva, o gli stazzuna dove si
fabbricavano tegole e mattonelle di terracotta. La cenere degli steli
divorati dal fuoco faceva le veci del sapone nelle diuturne "battaglie"
al fiume delle lavandaie. Quest’ultima circostanza dovette
impressionare non poco Goethe, considerato ciò che scrisse: «Lo stelo
della fava si brucia e con la cenere che ne risulta lavano la
biancheria. Di sapone non fanno uso».
Rimane però il fatto che nemmeno le fave sono esenti da nei: si credeva
che, mangiate allo stato crudo, facessero venire i vermi. Ma, a parte
questo piccolo inconveniente, cui quasi nessuno badava, le fave erano
ritenute rimedio sicuro contro molti mali. Grosse scorpacciate di fave
verdi erano consigliate a Castelbuono per combattere le febbri
malariche recidive, a meno che non si preferisse masticare ciuffi di
artemisia già posti dentro le scarpe nella stagione delle fave verdi.
Il tumore alla milza non era poi male incurabile a Palermo, sempre che
chi assisteva il paziente non provasse schifo a sfilare un rustico
rosario con grani di fava già ammollati nell’urina di un coetaneo
dell’ammalato, recitando nel contempo uno scongiuro noto alle
fattucchiere. Persino le prescrizioni mediche a volte prevedevano (e
prevedono ancora) l’uso di fave. Senza scomodare le ricette secentesche
e i farmaci consigliati dal protomedico palermitano Alaimo (a base di
cimici e bucce di fave verdi) è un fatto che ai sofferenti di diarrea
tutt’oggi si consiglia di mangiare fave lesse, non già da ciarlatani,
ma da medici seri, fedeli al giuramento di Ippocrate.
Prof. Pippo Oddo