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Riforma: Parliamo di Scuola come pubblica istituzione per la formazione

Opinioni
Si, perché da un po' di tempo a questa parte di scuola non si sta parlando più. Si parla di investimenti sulla scuola, di qualità dei docenti, di riduzione delle classi e dell'aumento del numero di alunni per classe, di refezione e problemi relativi, di libri di testo e lavagne elettroniche, di professori che perdono il posto di lavoro o che non possono andare in pensione se non dimezzando lo stipendio, ma della scuola italiana, come pubblica istituzione per la formazione dei giovani non si parla più da tempo. Forse dal tempo in cui era ministro un certo Berlinguer, di mestiere docente e un po' politico.
Probabilmente si è smarrito il discorso sulla scuola da quando sono iniziate delle riforme, ad oggi vigenti, intese a ridurre alcuni insegnamenti, alcune ore di lezione, dichiarare l'importanza delle lingue straniere (ma a tutt'oggi chi vuole parlare lingue diverse dalla materna deve fare ricorso al privato o vivere all'estero).
Piccole variazioni sono state fatte, i titoli di studio sono stati aggiornati in base alla evoluzione degli istituti magistrali o seguendo particolari tendenze o abilità (musica, sport) che dovrebbero riguardare tutti gli adolescenti. La struttura della scuola italiana, dietro l'apparente cambiamento, è mutata poco. Si sta più anni a scuola, rispetto agli europei, e molto meno nell'arco della giornata (che ci si starebbe a fare di più?).
In cambio si ha una ricchezza di docenti forse spropositata ai tempi. La torta (il diagramma circolare colorato che rappresentava le ore di lezione per classe di concorso) che solevo presentare ai colleghi nel tempo in cui presiedevo ad una scuola rappresenta ancora nei licei una assoluta predominanza di letterati, una quasi equivalente presenza di scienziati, ginnici, teologi, linguisti, filosofi ed una sparuta presenza di artisti.
Naturalmente c'è da rispettare una tradizione culturale con proporzionale presenza di ceto docente.  Naturalmente l'esercizio fisico è molto importante, come le lingue europee, ma chissà perché poi quasi tutti i ragazzi (e le ragazze) vanno pomeriggio in palestra e a scuola di lingua.
Bisognerebbe altresì parlare dei tanti istituti professionali che tante attività svolgono con i fondi europei e lasciano sguarnite quelle professionalità “manuali” che le imprese italiane cercano. Il problema forse sta sempre lì, come conciliare la tradizione italiana di eccellenza culturale e artistica con la professionalizzazione necessaria per quelli che una volta si intendevano col nome di “arti e mestieri”.
I genitori tutti vogliono i  figli medici, notai, giudici dei TAR, ingegneri elettronici, al peggio giornalisti o presentatori televisivi, meglio se calciatori. Tutte cose per cui la scuola secondaria serve poco o punto. Anche i giornalisti oggi (lo si vede dagli svarioni linguistici e dai grossolani errori ortografici) hanno poco appreso dai Licei. I tentativi poi di innestare la manualità nelle scuole di cultura e la filosofia in quelle professionalizzanti (fine anni settanta, primi ottanta, Franzoni, Frabboni, Ariosi, Armento, Nardiello e affini) sono falliti (forse) per mancanza di soldi o per ostilità ideologica.
L'anticipazione delle superiori ed il prolungamento della giornata scolastica altrettanto. Le lingue e la matematica sono rimaste tabù. Ci siamo allontanati ancora dall'Europa (per non parlar dell'India e della Finlandia).
Per questo forse bisognerebbe finalmente parlare di scuola. Certo anche per dare un posto ai docenti cha a quarant'anni (o a sessanta?) aspettano ancora il posto di lavoro che gli è stato fatto balenare davanti quindici, trent'anni fa.   
Le proposte? Non sono facili. Bisognerebbe forse aprire la scuola alla società, chiedere alle professioni (Confindustria, Confcommercio e simili) che suggeriscano alla scuola i loro bisogni e le figure professionali che potrebbero interessare lo sviluppo della società italiana, dal turismo alla ricerca scientifica ed economica, dalla salute ai servizi, dallo sviluppo tecnologico alla bonifica sociale della politica usurata e marcia (sic!) ed aprire un dialogo con gli operatori della scuola (non le signore berlusconiane delle ultime finte riforme, ma proprio i professori e i presidi, assieme alle famiglie degli allievi).
Far uscire la scuola dalle mura cadenti più spesso per confrontarsi con il mondo del lavoro, ma anche con il mondo in genere (attraverso una buona educazione interculturale) per imparare le lingue e uscire dal provincialismo (tutti, non solo i figli benestanti dei politici). Sarebbe utile che tutti i giovani almeno due settimane l'anno li passassero in una scuola europea (ma anche asiatica o africana) ospiti di coetanei alla pari, come pure dovrebbero farlo docenti e presidi, sotituendosi tra colleghi anche per brevi periodi (metà di scuola, metà di vacanza) ma ogni anno del loro lavoro. Si faceva una volta, si può fare meglio oggi con i voli low cost. Gli allievi meno abbienti li si potrebbe aiutare con i fondi europei che sovrabbondano per altre iniziative.
Bisognerebbe quindi aprire il vasto capitolo dei rapporti didattici, dell'enorme problema che rappresenta la relazione tra docenti e allievi e tra famiglie e scuola, al fine di creare delle responsabilità comuni che superino il bullismo degli allievi e le acrimoniose pretese (spesso assurde) dei genitori.
Nessuno ha da dimostrare niente a nessuno. I grandi professori sono quelli che lasciano profonde tracce (positive) sui propri allievi ed i buoni genitori sono quelli che aiutano la scuola a che i professori possano lasciare queste forme (“formare”) sui loro figli. E i presidi? Basta che riescano a creare il clima sereno e produttivo perché tutto ciò avvenga. Se ci riescono quel (tanto o poco) che guadagnano se lo saranno meritato tutto.

Roberto Laudani
robertolaudani@simail.it








Postato il Mercoledì, 16 ottobre 2013 ore 06:30:00 CEST di Redazione
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