Malgrado le molte
contrapposizioni, spesso strumentali, in ambito pensionistico troppo
spesso vi è carenza di analisi circostanziate. In particolare, sull’età
di pensionamento, la considerazione che starebbe a giustificare in modo
incontrovertibile la necessità di un aumento è che, se aumenta la
speranza di vita, deve allungarsi anche la durata della vita
lavorativa; altrimenti, se la speranza di vita a 65 anni aumenterà di
cinque anni in cinquanta anni, il bilancio pubblico si dovrà caricare
in media di altri cinque anni di pensione per ciascun pensionato, con
conseguente, insostenibile, aumento della spesa pubblica. Tale
argomentazione è spesso proposta come talmente evidente da non
richiedere ulteriori indagini; ma risulta inconsistente ad un’analisi
più
attenta.
Innanzitutto, presupporrebbe
che si dia conto di quanto l’età di pensionamento è già aumentata negli
anni recenti. Cosa difficile, un po’ perché la memoria è corta, un po’
perché i ripetuti interventi legislativi, succedutisi a partire dagli
anni ’90, richiedono di districarsi in una complessa stratificazione di
norme. In ogni caso, considerando anche l’operare delle finestre,
ovvero di quel meccanismo per cui, una volta maturati i requisiti per
il pensionamento, un lavoratore deve continuare l’attività per un
ulteriore lasso di tempo (fino a 18 mesi), ancora nel 2000 i dipendenti
potevano andare in pensione di anzianità a 54 anni e 4,5 mesi se
pubblici, a 55 anni e 4,5 mesi se privati; la pensione di vecchiaia si
maturava ancor prima dei 60 anni per le donne e dei 65 per gli uomini
(fino al 1993 erano 55 e 60 anni, rispettivamente).
Nel 2012 il pensionamento di anzianità, di nuovo considerando anche le
finestre, non potrà avvenire prima dei 61 anni, così come il
pensionamento di vecchiaia per le dipendenti private, mentre il
pensionamento di vecchiaia per tutti gli altri richiederà almeno 66
anni. Già a legislazione vigente (ottobre 2011), considerando le
proiezioni Eurostat sull’aumento della speranza di vita in Italia, nel
2026 il pensionamento di anzianità sarà possibile non prima dei 63,5
anni e il pensionamento di vecchiaia quattro anni dopo; nel 2050 il
limite di età per il pensionamento di vecchiaia sarà superiore a 69
anni (4 anni in meno il requisito per l’anzianità). Dunque, in 50 anni
il requisito per la pensione di vecchiaia è destinato ad aumentare di
più di 5 anni per gli uomini e di 10 per le donne, mentre quello per il
pensionamento di anzianità ad aumentare di più di 10 anni; tutto ciò, a
fronte di un aumento della speranza di vita nel cinquantennio attorno
ai 5 anni. Si potrà replicare che le età di pensionamento di partenza
erano troppo basse, e probabilmente è vero, tuttavia decidere da quale
età partire per aumentare l’età di pensionamento in linea con la
speranza di vita è arbitrario e andrebbe adeguatamente argomentato.
Ancora più rilevante è, a mio parere, un’altra considerazione. Se
pretendere che prolunghino l’attività i lavoratori più senior può avere
senso in piena occupazione, diventa una strategia problematica quando è
diffusa la disoccupazione, specie se giovanile. E’ evidente che, in
questo modo, si stanno lasciando fuori dal mercato del lavoro – o
relegando ai margini – le coorti più giovani e, tipicamente, preparate,
per continuare ad utilizzare lavoratori di maggiore esperienza ma
avanti con gli anni, spesso demotivati e poco aggiornati. Si noti,
questo è un problema dell’Italia molto più che degli altri paesi.
Perché, come emerge chiaramente dai dati europei, mentre in Germania
l’80% dei lavoratori in ogni classe di età possiede almeno un diploma
di scuola secondaria superiore, non solo il dato italiano è molto più
basso, ma peggiora sostanzialmente nelle coorti di età più avanzate,
cosicché, mentre sui 25-29enni il gap è di 15 punti (il 90% di
diplomati in Germania, il 75% in Italia), esso è superiore ai 30 punti
(89% contro 58%) sui lavoratori 55-59enni. Il caso italiano spicca, in
negativo, anche rispetto a quello di Francia e Regno Unito e anche se
consideriamo, invece dei lavoratori, la popolazione complessiva.
Dunque, costringiamo a lavorare di più individui in gran parte con un
basso titolo di studio, laddove sotto-utilizziamo le generazioni più
giovani e preparate; qui, probabilmente, potrebbe trovarsi uno degli
“intoppi” che contribuiscono all’incapacità dell’Italia di reggere il
passo con gli altri paesi. Si potrà obiettare che non è possibile,
stanti le condizioni del bilancio pubblico, né prepensionare gli
anziani né assumere i giovani; non si vuole qui argomentare in favore
del dissesto della finanza pubblica, tuttavia andrebbe riconosciuto che
il problema è rilevante per il futuro del paese; spetterebbe, invero,
ai tecnici individuare percorsi e opportune soluzioni.
Un ulteriore elemento che andrebbe considerato riguarda i requisiti di
pensionamento nel nuovo regime pensionistico contributivo, cui sono
soggetti coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dal 1995. Nel
sistema contributivo, infatti, l’età di pensionamento non dovrebbe
contare. Se il sistema pensionistico restituisce semplicemente i
contributi dei lavoratori, suddividendo il risparmio pensionistico
(virtuale) sugli anni di residua vita attesi, allora dovrebbe essere
concessa massima flessibilità nell’età di pensionamento: a condizione
che si maturi un minimo, per non pesare altrimenti sulle finanze
pubbliche, dovrebbe essere a completa discrezione del lavoratore se
chiedere presto una pensione bassa o evitare di intaccare il proprio
risparmio pensionistico per conseguire una pensione più elevata. In
effetti, la riforma pensionistica del 1995 permetteva di scegliere
liberamente il pensionamento in una finestra di età 57-65 anni.
Flessibilità ormai venuta totalmente meno (salvo una irrilevante deroga
fino al 2016) con l’imposizione ai pensionati contributivi degli stessi
limiti di età che si applicano agli altri.
Invero, il principio contributivo e la flessibilità nell’età di
pensionamento sarebbero totalmente coerenti con la modellistica
dominante delle scelte individuali, laddove l’imposizione di un’età
minima di pensionamento viene generalmente attribuita all’operato di un
“dittatore benevolente”. Appare in tal senso strano che nessun
economista, fra i tanti che dell’appartenenza al filone liberale non
fanno mistero, trovi contraddizione alcuna fra tale appartenenza e il
sostenere la necessità di ulteriori aumenti dell’età di pensionamento
anche per i lavoratori rientranti nel regime contributivo.
Se quanto sopra illustrato ha un senso, perché l’aumento dell’età di
pensionamento è comunque costantemente al centro dell’agenda politica?
Perché serve a far cassa. Ma dire che l’aumento dell’età di
pensionamento serve a fare cassa individua automaticamente la
ragioneria generale dello stato quale organo di propulsione e gestione
degli interventi; ad essa spetta far quadrare i conti, conciliando in
qualche modo le priorità di governo e parlamento con il rispetto dei
vincoli costituzionali e comunitari al bilancio. In tal senso, si fa
presto a fare un conto di massima: con pensioni medie dell’ordine di
15mila euro l’anno, se costringo 100mila lavoratori a rinviare di un
anno il pensionamento ridurrò la spesa pubblica di 1,5 miliardi di euro
(anche se l’effetto sarà in parte riassorbito col tempo).
Dunque, l’aumento dell’età di pensionamento è uno strumento che offre
un sostanzioso e immediato risparmio, per giunta apparentemente poco
doloroso, giacché costringere qualcuno a lavorare di più è cosa ben
diversa dal privarlo del reddito. Uno strumento perfettamente coerente
con l’approccio proprio della ragioneria e il cui uso, per altro, può
essere reiterato all’occorrenza. Del tutto coerente con lo stesso
approccio è anche che l’aumento dell’età venga applicata a tutti
indistintamente, anche ai lavoratori soggetti al contributivo. E
coerente è anche che, qualora non vi siano le condizioni politiche per
un esplicito aumento dell’età, esso venga nascosto nelle pieghe dei
provvedimenti, com’è avvenuto, ad esempio, con l’introduzione del
meccanismo delle finestre nella riforma del 1995 e con il loro
appesantimento negli anni successivi.Se quella descritta è la,
legittima, logica ragionieristica, è tuttavia da dimostrare che essa
sola debba definire la politica pensionistica del paese. In realtà, le
pesanti controindicazioni che essa si porta dietro suggeriscono che
sarebbe indispensabile affiancarle un’adeguata elaborazione di tipo
economico.
Perché, ad esempio, la logica ragionieristica non si occupa degli
effetti sulla credibilità dello stato delle continue modifiche della
legislazione e di clausole vessatorie, come quella delle finestre, che
travolgono la certezza del diritto e la capacità di programmazione dei
cittadini; in effetti, chiunque abbia a che fare con lavoratori oltre i
cinquanta anni può rendersi immediatamente conto di come il continuo
spostare l’asticella dei requisiti minimi stia non solo generando
incertezze e paure, ma anche minando la fiducia nelle istituzioni.
Perché, ancora, la logica ragionieristica può non interessarsi
all’effetto complessivo, sul livello di produttività e di crescita del
paese, oltre che sulla coesione sociale, di operazioni che hanno
l’effetto di mantenere al lavoro lavoratori anziani con bassa scolarità
e tenere fuori lavoratori giovani e qualificati; così come può non
interessarsi al se e come vengano attivati programmi di formazione e
aggiornamento per i lavoratori anziani che verranno forzatamente
trattenuti al lavoro.
Tutte cose di cui, invece, sarebbe utile e opportuno si occupassero gli
economisti e discutesse la società, non per aumentare la spesa e il
debito, bensì per individuare proposte e soluzioni che possano
coniugare tanto gli equilibri di breve del bilancio che quelli di
lungo, alimentando al tempo stesso le prospettive di sviluppo del paese.
(di Angelo Marano, nelmerito.com http://www.rassegna.it)