Meno, è questo il
segno che contraddistingue la parabola del governo Berlusconi che con
l’ultimo voto di fiducia ha toccato il punto più basso. Meno sicurezza,
meno risorse alle forze di polizia, meno lavoro, meno benessere, meno
opportunità, meno sostegno alle famiglie, meno politiche per le piccole
e medie imprese, meno diritti nel lavoro.
Meno pluralismo, meno democrazia, meno giustizia, meno welfare, meno
ricerca, meno autorevolezza sullo scenario internazionale, meno risorse
agli enti locali, meno coesione sociale, meno solidarietà, meno
investimenti per energie rinnovabili, meno crescita e Pil, meno
rispetto del territorio, meno
moralità.
L’unico segno meno che manca, ed è l’ennesima
promessa tradita, è quello riferito alle tasse, che sono aumentate. Ma
c’è un luogo dove questo segno meno è particolarmente evidente, ossia
il mondo della scuola e dell’università, dove in questi anni abbiamo
assistito ad una inaudita opera di riduzione di risorse che è stata
ribadita nella recente lettera alla Ue.
L’anno scolastico è così iniziato tra le proteste di studenti,
professori e personale della scuola per gli effetti sempre più
tangibili dei tagli: carenza di organico, presidi in condivisione tra
diverse scuole, classi “pollaio”, riduzione del sostegno per i ragazzi
disabili. Dopo aver cercato di giustificare i tagli come un’operazione
di modernizzazione, in una recente intervista la Gelmini ha giocato
allo scaricabarile e attribuito a Tremonti la responsabilità dei tagli
e delle scelte scellerate in materia scolastica e universitaria.
Delle due l’una: o il ministro Gelmini è stata una marionetta guidata
dall’inquilino del ministero dell’economia (e in questo caso dovrebbe
dimettersi per dignità) o ha condiviso l’operazione chirurgica che ha
affondato il bisturi nella carne viva della scuola pubblica, senza
riuscire ad affrontare le criticità della scuola.
In realtà la coppia è complice e ha utilizzato la scuola come un
bancomat poiché ritiene, a torto, che la scuola pubblica non debba
essere motore di mobilità sociale e di progresso del paese, ma debba
perpetuare le differenze sociali, così come è persuasa che la retorica
della meritocrazia debba cancellare la promozione delle pari
opportunità, mentre la scuola deve sostenere assieme merito e
opportunità.
Qualche esempio. Il diritto allo studio universitario è affidato ad un
fondo per l’erogazione delle borse che da tre anni lascia i candidati
beneficiari con “il fiato sospeso” per due motivi: le risorse, oltre ad
essere drammaticamente insufficienti a soddisfare le attese di tutti
gli studenti idonei, sono attribuite sul filo di lana dalla legge
finanziaria, senza alcuna programmazione.
Le borse nazionali per il merito – sulla cui entità nulla è dato sapere
– saranno erogate a prescindere dalla condizione di reddito del
beneficiario. Un provvedimento che non contrasterà il fenomeno della
flessione delle immatricolazioni universitarie e che contraddice il
diritto costituzionale, per i capaci e meritevoli anche se privi di
mezzi, di «raggiungere i più alti gradi degli studi». Sull’edilizia
scolastica, il ministro al suo insediamento avallò il taglio dei
finanziamenti e annunciò l’impegno di ben un miliardo di fondi Fas.
Sono passati tre anni e la montagna ha partorito un topolino: a oggi
solo 31 scuole hanno siglato l’accordo per poter utilizzare le risorse.
Chi può dimenticare, poi, la spensierata fierezza con la quale il
ministro ha tagliato 132mila posti di lavoro tra docenti e personale
Ata (pari a 8 miliardi di euro) al grido “la scuola non è un
ammortizzatore sociale”, ma tacendo sui livelli di apprendimento e
sulla qualità dell’offerta formativa. Un taglio draconiano,
irresponsabile, che ha reso ancora più acuto il problema del precariato.
I dati a lungo celati dal Miur parlano chiaro: i docenti precari
nell’anno 2010-2011 sono stati 115mila, pari al 14,9 % del totale, cioè
percentualmente pari al valore registrato nell’anno 2005- 2006, sebbene
nel frattempo sia intervenuto il taglio di 67mila posti negli organici.
Difficile vedere in queste cifre la riduzione del tasso di precarietà
sbandierata dalla Gelmini: piuttosto è la certificazione di un
fallimento.
In conclusione, il tentativo del ministro Gelmini di prendere le
distanze dalla stagione dei tagli è smentito drammaticamente dai fatti
e occorre ben più di una intervista per far dimenticare agli studenti,
ai docenti e alle famiglie il disprezzo e i pregiudizio dimostrati in
questi tre anni nei confronti del sistema di istruzione e formazione
pubblico.
Manuela Ghizzoni (da
http://www.europaquotidiano.it)
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